Categoria: Glossario di psicologia

Il glossario di psicologia propone un’ampia selezione delle principali voci ricorrenti nell’ambito della psicologia. La definizione dei termini è essenziale e sintetica, ma allo stesso tempo chiara e precisa e fornisce una conoscenza di base del significato del termine.

  • Analisi Transazionale

    Blog di psicologia

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    di Emanuele Fazio

    Analisi Transazionale

    L’Analisi Transazionale (AT) è una teoria psicologica e un approccio terapeutico sviluppato da Eric Berne negli anni ’50. È nata come una forma di psicoterapia che si concentra sulle interazioni sociali e sui modelli di comportamento tra individui. Ecco un panorama dettagliato della nascita e dello sviluppo dell’Analisi Transazionale:


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    stili di personalità non funzionali;
    bassa autostima;
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    Nascita dell’Analisi Transazionale

    Eric Berne (1910-1970):
    • Formazione e Background: Eric Berne era uno psichiatra e psicoterapeuta canadese. Dopo essersi formato come psichiatra e aver lavorato con il metodo psicoanalitico, Berne iniziò a sviluppare un approccio diverso, influenzato dalla psicologia sociale e dal pensiero freudiano.
    • Pubblicazione Fondamentale: Nel 1961, Berne pubblicò “Games People Play” (in italiano “Giochi che giocano le persone”), un libro che spiegava i concetti di base dell’Analisi Transazionale. Questo libro, rivolto a un pubblico generale, rese l’AT accessibile al grande pubblico e contribuì significativamente alla sua diffusione.
    • Concetti Fondamentali: Berne introdusse i concetti di “stati dell’io” (Genitore, Adulto, Bambino), “giochi psicologici” e “copioni di vita”. Questi concetti erano volti a spiegare come le persone interagiscono tra loro e come i modelli di comunicazione influenzano le relazioni e il comportamento.

    Sviluppo e Espansione dell’Analisi Transazionale

    Anni ’60 e ’70:
    • Formazione e Applicazioni: Negli anni ’60, l’AT si sviluppò come un approccio terapeutico e di crescita personale. I professionisti iniziarono a utilizzare l’AT non solo in terapia individuale, ma anche in contesti di gruppo e organizzativi.
    • Diffusione: Durante questo periodo, l’AT divenne sempre più popolare e si diffusero numerose scuole e corsi di formazione. Le idee di Berne influenzarono anche altri campi, come l’educazione e la psicologia organizzativa.
    • Associazione Internazionale: Nel 1964, fu fondata l’International Transactional Analysis Association (ITAA) per promuovere e standardizzare l’uso dell’AT a livello globale. Questo contribuì alla creazione di una rete professionale e accademica per l’AT.
    Anni ’80 e ’90:
    • Evoluzione e Sviluppo: Negli anni ’80, l’AT continuò a evolversi con contributi significativi da parte di diversi esperti. Alcuni dei concetti chiave come i “Giochi” e i “Copioni” furono esplorati in profondità e applicati in vari contesti terapeutici e non terapeutici.
    • Applicazioni in Diversi Contesti: L’AT iniziò a essere applicata in ambito aziendale e educativo, oltre che terapeutico. L’uso delle tecniche di AT nella formazione e nello sviluppo personale divenne più comune.
    • Sviluppo di Nuovi Approcci: Fu sviluppata una serie di approcci e tecniche specifiche all’interno dell’AT, inclusi interventi focalizzati sul cambiamento dei “copioni di vita” e miglioramenti nelle tecniche di comunicazione interpersonale.
    Anni 2000 e Oltre:
    • Consolidamento e Innovazione: L’AT è diventata una parte consolidata del panorama psicoterapeutico e della psicologia applicata. Nuove ricerche e pratiche hanno continuato a espandere e affinare le tecniche dell’AT.
    • Formazione e Certificazione: L’AT è stata standardizzata e regolata attraverso programmi di formazione e certificazione. L’ITAA e altre organizzazioni professionali continuano a fornire risorse, formazione e certificazione per i praticanti di AT.
    • Continuità e Sviluppo: L’AT continua ad essere una disciplina attiva, con pratiche terapeutiche, corsi di formazione e ricerche in corso che espandono la comprensione e l’applicazione di questo approccio psicologico.


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    Principali Concetti dell’Analisi Transazionale

    Stati dell’Io:
      • Genitore: Rappresenta le norme e i valori appresi dai genitori e dalle figure di autorità.
      • Adulto: Rappresenta il pensiero razionale e la capacità di prendere decisioni basate sulla realtà.
      • Bambino: Rappresenta le emozioni e le reazioni basate sulle esperienze infantili.
    Giochi Psicologici:
      • Descrizione: Modelli di comportamento ripetitivi e disfunzionali che le persone utilizzano per ottenere conferme e gratificazioni emotive.
    Copioni di Vita:
      • Descrizione: Piani inconsci che influenzano il comportamento e le scelte di vita, basati su esperienze e influenze infantili.
    Contratti:
      • Descrizione: Accordi espliciti tra individui per stabilire obiettivi chiari e ruoli nei contesti terapeutici o di crescita personale.

    In sintesi, l’Analisi Transazionale è un approccio psicologico che ha avuto una lunga e significativa evoluzione. Dalla sua nascita con Eric Berne fino alla sua attuale applicazione e sviluppo, l’AT ha influenzato profondamente il campo della psicologia e continua a offrire strumenti utili per comprendere e migliorare le interazioni umane e la crescita personale.

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  • Aggressività

    aggressività

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    Aggressività

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    di Emanuele Fazio

    Aggressività

    L’aggressività è una tendenza verso la dominanza sociale, attuata per il mezzo di atteggiamenti e comportamenti minacciosi e ostilità manifesta. Può verificarsi sporadicamente oppure essere un tratto caratteristico dell’individuo. Vi sono due tipi di aggressività: quella reattiva e quella proattiva. Nel primo caso il soggetto difende ciò che ha (un oggetto saliente concreto oppure astratto) oppure il suo progetto ad avere quel tale oggetto. Nel secondo caso attacca l’oggetto saliente che non ha: di fatto il suo progetto è di natura esclusivamente predatoria. L’attacco può essere diretto al possessore dell’oggetto (l’ambiente è un possibile possessore) e il possessore spesso incorpora l’oggetto.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Aggressività e catarsi

    Gli studi che si sono occupati di distinguere tra aggressività intesa come impulso versus aggressività intesa come risposta socialmente appresa, si focalizzano spesso sul concetto di catarsi, o purificazione da una emozione attraverso l’esperienza intensa oppure completa di essa.

    Se l’aggressione fosse un impulso, la sua libera espressione dovrebbe svolgere una funzione catartica, e produrre una riduzione dell’intensità dell’emozione rabbia e la cessazione dell’azione aggressiva (analogamente al fatto che se mangiamo, riduciamo il senso di fame e cessiamo il comportamento di ricerca del cibo).

    L’ipotesi social-cognitiva postula che l’aggressione è una risposta appresa, e pertanto esprimere aggressività diventa un comportamento operante, specie se rinforzato.

    La ricerca ha evidenziato più dati a sostegno dell’ipotesi social-cognitiva.

    Gli psicologi hanno condotto numerosi studi di laboratorio per determinare se l’aggressività diminuisce una volta che è stata parzialmente espressa.
    Gli studi sui bambini indicano che la partecipazione ad attività aggressive aumenta il comportamento aggressivo o lo mantiene allo stesso livello.
    Gli esperimenti con gli adulti producono risultati simili.
    Quando vengono date ripetute opportunità di punire un’altra persona (che non può vendicarsi), gli studenti universitari diventano sempre più punitivi.
    I partecipanti che sono arrabbiati diventano ancora più punitivi negli attacchi successivi rispetto ai partecipanti che non sono arrabbiati.
    Se l’aggressività fosse catartica, i partecipanti arrabbiati dovrebbero ridurre la loro spinta aggressiva quando agiscono in modo aggressivo.

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    Emozione e motivazione

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    di Emanuele Fazio

    Emozione e motivazione

    Emozione e motivazione sono due facce della stessa medaglia.
    Le emozioni canalizzano energia allo stesso modo delle motivazioni (si tratta in entrambi i casi di drive, che in inglese possiamo tradurre come impulso, spinta).
    Spesso emozioni e motivazioni coesistono in questa canalizzazione. Fare sesso non è soltanto l’esecuzione meccanica imposta geneticamente dalla specie (ciò che Freud chiamò libido), ma anche una fonte di emozioni, come il piacere (e a volte anche di vergogna e senso di colpa).

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    blog di psicologia

    Quindi sia le motivazioni che le emozioni attivano e guidano determinati comportamenti, generalmente specie-specifici. Si tratta di comportamenti semplici oppure complessi, formati da azione e/o pensiero, di natura istintiva o razionalmente mediata, ma sempre finalizzati, con intenzionalità rivolta verso l’esterno (tipica nei comportamenti di attacco) oppure verso l’interno (tipica nei comportamenti di evitamento e fuga).

    Abbiamo appena detto delle similarità, ma vediamo le differenze. Gli schemi emotivi, quasi alla guisa delle vecchie schede perforate che si utilizzavano con i primi computer, si attivano automaticamente, in risposta a stimoli (che coinvolgo i tradizionali cinque sensi) che provengono dall’esterno mentre gli schemi motivazionali si attivano in risposta a stimoli (spesso di natura propriocettiva, enterocettiva o vestibolare) che provengono dall’interno. Quindi le emozioni si dispiegano a causa della presenza di un sintomo saliente collocato all’esterno e l’intenzionalità è diretta verso il sintomo saliente mentre la motivazione si dispiega a causa della presenza di un sintomo saliente collocato all’interno e l’intenzionalità è diretta verso un secondo stimolo (o oggetto) che è in grado di ridurre la tensione emotiva (ecco perché emozione e motivazione spesso coesistono) generata dalla mancanza o dalla difficoltà a reperire l’oggetto prima detto. L’oggetto è in genere cibo, acqua, protezione, partner ed altro ancora.

    Ecco quindi che le motivazioni sono elicitate da stimoli prevedibili o riconducibili ad essi, mentre le emozioni sono elicitate da una più ampia gamma di stimoli, per quanto molti di essi sono altrettanto prevedibili, ma non tutti.

    Un’emozione è un fenomeno complesso e formato da diverse componenti; l’emozione attiva e guida uno o più comportamenti (sia motori che mentali). Secondo alcuni autori (Frijda e Lazarus), ogni singola emozione consta di almeno sei componenti. La sequenza con cui queste componenti si dispiegano varia a seconda del modello teorico postulato.
    In un successivo articolo vedremo come questa sequenza si dispiega.

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    di Emanuele Fazio

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    Psicolinguistica

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    La psicolinguistica o psicologia del linguaggio è lo studio della relazione reciproca tra fenomeni linguistici e fenomeni psicologici.
    La psicolinguistica si occupa principalmente dei meccanismi strutturali e funzionali, attraverso i quali il linguaggio viene elaborato e rappresentato nella mente umana, considerando i fenomeni psicologici (individuali e sociali) neurobiologici e ambientali che consentono agli esseri umani di apprendere, usare, comprendere e produrre il linguaggio.


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    La psicolinguistica si occupa inoltre dei processi cognitivi necessari per produrre la struttura grammaticale del linguaggio.

    I primi studi

    I primi studi di psicolinguistica hanno riguardato aspetti più attinenti alla filosofia e alla pedagogia. Gli studi più recenti annoverano invece ambiti più estesi, come ad esempio biologia, neuroscienze, scienze cognitive, linguisticascienze della comunicazione.

    Inoltre, esistono ambiti a sé stanti, come ad esempio la neurolinguistica e la psicolinguistica dello sviluppo, quest’ultima orientata allo studio di come il bambino apprende ad utilizzare il linguaggio.

    In sostanza, la psicolinguistica e gli ambiti ad essa collegati studiano i processi coinvolti nell’acquisizione, comprensione e produzione del linguaggio.


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    La psicolinguistica suddivide ulteriormente i suoi studi in base alle diverse componenti che compongono il linguaggio umano.

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    Fonetica e fonologia attengono lo studio dei suoni del linguaggio. Nell’ambito della psicolinguistica, la ricerca si concentra su come il cervello elabora e comprende questi suoni.

    Morfologia

    La morfologia è lo studio della struttura di base delle parole, in particolare dei morfemi, unità minime di significato.

    Sintassi

    La sintassi è lo studio di come le parole vengono combinate per formare frasi.

    Semantica

    La semantica è lo studio del significato delle parole e delle frasi. Mentre la sintassi si occupa della struttura formale delle frasi, la semantica si occupa del significato effettivo delle frasi.

    Pragmatica

    La pragmatica si occupa del ruolo del contesto sociale nell’attribuzione di significato a parole e frasi.

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  • Angoscia

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    angoscia

    di Emanuele Fazio

    Glossario di psicologia

    Angoscia

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    Angoscia, dal latino angustia, traducibile in inglese con il termine anguish (se riferito al concetto filosofico) oppure distress o emotional distress (se riferito al concetto psicologico), significa una eccessiva tristezza determinata da cause di natura fisica oppure mentale.

    Il sentimento di angoscia, poiché trattasi di sentimento, è generalmente preceduto da un evento infausto o considerato tale da chi lo subisce.

    L’angoscia può determinare uno stato di malessere, acuto oppure cronico o quantomeno duraturo) che la persona percepisce sia fisicamente che mentalmente.


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    In filosofia

    In filosofia, l’angoscia è un concetto presente soprattutto nell’esistenzialismo e fa riferimento, nell’esperienza umana, alla assoluta mancanza di alcun motivo oggettivo per l’azione, abbastanza simile ma non sovrapponibile al concetto di nichilismo.

    Per Søren Kierkegaard, l’angoscia è quel sentimento che pervade l’essere umano, in quanto alla sua idea di libero arbitrio, inteso come la libertà di poter disporre liberamente del mondo, si contrappone l’idea terrificante che proprio questa libertà illimitata può condurre alla catastrofe dell’intera umanità.

    Un concetto molto simile a quello di ansia climatica (climate anxiety), che consiste nell’ aumento del disagio emotivo, mentale o somatico in risposta ai pericolosi cambiamenti climatici.

    In psicologia

    In ambito più prettamente psicologico, l’angoscia è sinonimo di paura, stress, ansia panico.


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  • Affetto, emozione e sentimento

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    affetto emozione sentimento

    di Emanuele Fazio

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    Affetto, emozione e sentimento

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    Prima di parlare di affetto, emozione e sentimento, diciamo due parole sulla soggettività.

    La soggettività

    La soggettività è la naturale propensione di ciascun essere umano a elaborare (anche se spesso in modo inconsapevole o parzialmente inconsapevole), in modalità seriale oppure parallela (o in entrambi i modi) i dati ricavati dal suo essere al mondo assieme alle proprie emozioni, affetti, credenze, esperienze, opinioni, sentimenti.

    Tra i maggiori limiti che si riscontrano in letteratura, vi è quello relativo ad una frequente mancata distinzione tra i lemmi sopra riportati.
    In particolare, tra affetto, emozione e sentimento.

    Il ruolo dell’ascoltatore

    La capacità dell’ascoltatore di cogliere l’esatto significato che un parlante intende esprimere attraverso l’uso di un lemma è fondamentale per la costruzione di una buona pragmatica della comunicazione.

    Ogni espressione linguistica – un paralinguismo, una parola, una frase, un discorso – in quanto atto linguistico, si determina in funzione di altri fenomeni, come ad esempio gli stati mentali.
    Esempi di stati mentali sono le intenzioni, i desideri, le credenze, le emozioni del parlante. Ovviamente entrano in gioco anche gli stati mentali dell’ascoltatore, quantomeno nella forma in cui il parlante se li rappresenta.


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    Entriamo nel dettaglio di affetto, emozione e sentimento

    L’affetto

    Secondo l’American Psychological Association (APA), per affetto si intende qualsiasi esperienza emotiva, dall’euforia alla disforia, con qualunque grado di intensità e di polarità.
    L’ affetto è una delle tre componenti del modello tradizionale della mente, assieme alla cognizione e al comportamento.

    Secondo Shouse[1], l’affetto è il grado di intensità, il volume sonoro dell’esperienza.
    È ciò che permette di sentire un’emozione.
    Se la mente fosse un impianto Hi-Fi, l’affetto sarebbe l’amplificatore.
    L’affetto è quindi il contenitore e non il contenuto (che sarebbe invece l’emozione).

    È il significante e non il significato (che sarebbe invece il sentimento).

    Per far ciò sono necessari, secondo Shouse, un uso appropriato del linguaggio – per dare un nome all’esperienza emotigena[2] – e una memoria biografica, da cui attingere per centrare al meglio la definizione.

    Per questa ragione i bambini piccoli non provano emozioni ma esprimono reazioni affettive in funzione dell’intensità dello stimolo ricevuto.
    Nello startle reflex, o startle response, la risposta di allarme è una risposta difensiva in gran parte inconscia a stimoli improvvisi e intensi, prudentemente etichettati come minacciosi, e caratterizzati da rumori improvvisi o movimenti bruschi.
    Tale reazione è caratterizzata da affettività negativa[3].

    Seguendo l’assunto che l’ontogenesi riassume la filogenesi, l’affetto ha preceduto da un punto di vista evolutivo l’emozione, senza tuttavia estinguersi ma ricollocandosi all’interno del sistema individuo con nuove funzionalità, tra cui appunto quella di far sentire un’emozione, assieme alla attribuzione automatica di un valore di positività oppure di negatività[4].

     


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    Affetto, emozione e sentimento

    Il sentimento (in inglese feeling).

    In questo articolo su affetto, emozione e sentimento sono passato direttamente a sentimento in quanto ho trattato l’emozione (o le emozioni) in quest’altro articolo.

    La differenza tra feeling e emotion (che possiamo tradurre rispettivamente in sentimento ed emozione) è pressoché nulla in psicologia ingenua – i due termini sono usati intercambiabilmente e quindi sono sinonimi.
    Nella psicologia accademica non sempre abbiamo una distinzione tra i due termini oppure abbiamo distinzioni non ampiamente condivise.

    Sappiamo che le emozioni sono reazioni bio-regolatorie che mirano a promuovere, direttamente o indirettamente, il tipo o i tipi di stati fisiologici che assicurano sopravvivenza e benessere[5].

    Ma come si dispiegano queste reazioni bio-regolatorie?

    Si tratta di un sistema predeterminato di attività elettrochimiche a livello neuronale ed endocrino, che coinvolgono quindi rispettivamente neurotrasmettitori e ormoni e che il nostro cervello attiva non appena rileva la presenza di uno stimolo emotigeno significativo.
    Le attività elettrochimiche neuroendocrine si avviano in automatico, sia che la rilevazione della presenza dello stimolo emotigeno avvenga consapevolmente o inconsapevolmente.

    Anche l’attribuzione di significatività (o salienza) avviene in automatico e recluta informazioni che sono immagazzinate in memoria.

    Il processo di associazione o apprendimento

    In memoria ci sono rappresentazioni di stimoli emotigeni che l’evoluzione ha selezionato come significativi – associazione stimolo/significatività innata – ed anche rappresentazioni di stimoli emotigeni che l’esperienza ontogenetica ha selezionato come altrettanto significativi – associazione stimolo/significatività appresa.
    A questo processo di associazione (apprendimento) partecipano anche comportamenti – come l’attacco o la fuga – e l’espressione, soprattutto facciale, che comunica a sé e agli altri il tipo di emozione provata.

    Nel sapiens l’associazione prosegue con il recupero in memoria della definizione linguistica.

    La significatività degli stimoli emotigeni, siano essi innati che appresi, può tuttavia essere mediata/moderata dall’esperienza.
    Alla significatività è pertanto possibile attribuire un valore, non di tipo dicotomico bensì dimensionale.
    La significatività può essere mediata/moderata anche da caratteristiche del contesto.

    I sentimenti (feelings) sono la percezione cosciente di uno stato emotivo

    Quindi: uno stimolo emotigeno esterno NON CONSAPEVOLE oppure interno NON CONSAPEVOLE produce una risposta fisica AUTOMATICA E NON CONSAPEVOLE da parte del nostro organismo.
    Lo stato fisico (e che quindi non è ancora uno stato mentale[6]) prodotto dalla risposta fisica allo stimolo emotigeno (uno stato fisico che è diverso dallo stato fisico precedente al verificarsi del fenomeno stimolo emotigeno) è percepito CONSAPEVOLMENTE dalla nostra mente.

    Più precisamente la nostra mente percepisce il cambiamento di stato.

    Perché non percepiamo consapevolmente lo stato fisico prodottosi a seguito dello stimolo emotigeno?

    Poiché lo stato fisico in sé non ci informa di nulla, in quanto sappiamo che tale stato è identico QUALUNQUE SIA LO STIMOLO EMOTIGENO.

    Noi percepiamo il cambio di stato e mentalmente inferiamo la presenza di uno stimolo emotigeno.

    Lo stato fisico che si produce attiva in automatico la risposta motoria – ad esempio scappare oppure attaccare ma anche stare all’erta oppure provare ad avvicinarsi.

    A questo punto noi percepiamo ANCHE la risposta motoria.

    Il sentimento inizia a prendere forma

    Adesso disponiamo consapevolmente delle seguenti informazioni: c’è uno stimolo emotigeno e questo stimolo emotigeno determina una reazione motoria, ad esempio fuga.
    Possiamo inferire che si tratti di paura.
    La conferma consapevole che si tratti di paura ci può derivare dallo stimolo emotigeno, che adesso siamo in grado di individuare all’interno del campo fenomenico.

    Noi di fatto ricerchiamo attivamente uno stimolo emotigeno che sia compatibile con l’emozione paura.

    Se nel campo fenomenico osservassimo tre cose: un albero, un altro individuo e una tigre, assoceremmo quest’ultima alla nostra emozione di paura – la tigre è stimolo emotigeno sufficiente per provare paura.
    Nel caso osservassimo un albero, un altro individuo e un televisore, molto probabilmente assoceremmo l’altro individuo alla paura.
    Infine, nel caso di un albero, un televisore e una chitarra, il nostro istinto di fuga verrebbe inibito oppure rallentato, in quanto non avrebbe rilevato uno stimolo emotigeno che abitualmente assoceremmo alla paura.

    L’emozione è pertanto un insieme non casuale di reazioni neurobiochimiche e attività elettrica neuronale che il nostro cervello produce non appena rileva la presenza – tale o presunta – di uno stimolo non indifferente[7]. La sequenza affetto, emozione e sentimento è il fenomeno che include tanti sotto-fenomeni, tra cui per l’appunto affetti, emozioni e sentimenti.

    In conclusione

    Tali reazioni neurobiochimiche – come possono essere la sintesi del CRH, dell’ACTH, dei vari glucocorticoidi e delle catecolamine e successivamente il legame di questi ultimi due con i recettori e la sintesi proteica che ne scaturisce – determinano cambiamenti fisiologici generali che preparano il corpo a lottare oppure a fuggire.
    In funzione di alcune attività di tipo muscolare, come ad esempio l’aumento del battito cardiaco, l’aumento della pressione sanguigna e altre attività riconducibili all’attivazione del sistema simpatico, il soggetto ha coscienza o consapevolezza di tali attività ed in particolare del fatto che tali attività sono subentrate ad una condizione di non attività oppure che l’intensità di tali attività è aumentata oppure diminuita rispetto ad una condizione di attività precedente.

    Tale coscienza o consapevolezza è quella che Antonio Damasio chiama sentimento (feeling).

    È pertanto possibile che affetto, emozione e sentimento sono fenomeni a sé stanti e che sono apparsi durante il processo evolutivo con questa esatta sequenza.

    Note

    [1] Shouse, E. (2005). Feeling, Emotion, Affect. M/C Journal8(6). https://doi.org/10.5204/mcj.2443

    [2] Con il lemma emotigeno si intende qualunque cosa, materiale oppure astratta, in grado di attivare la risposta emotiva. In inglese è detto stressor.

    [3] Ramirez-Moreno, David. “A computational model for the modulation of the prepulse inhibition of the acoustic startle reflex”. Biological Cybernetics, 2012, p. 169

    [4] P. A. Thoits, “The sociology of emotions”, Annu. Rev. Sociology, vol. 15, pp. 317-342, 1989.

    [5] Il concetto di benessere va oltre il mero concetto di sopravvivenza, ma naturalmente senza escluderlo.

    [6] In questo articolo parlo della differenza tra stati mentali e stati fisici, di fatto una non differenza, in quanto li ritengo la stessa cosa ma linguisticamente rappresentati da definizioni diverse.

    [7] Con stimolo non indifferente possiamo indicare qualunque oggetto concreto oppure astratto che rappresenta per il soggetto una minaccia oppure una risorsa.

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    Gli attacchi di panico sono fenomeni periodici che si verificano all’improvviso e senza una apparente causa scatenante.
    La persona inizia ad avvertire una forte apprensione, che si trasforma presto in paura, come se un pericolo reale si stesse manifestando sotto i suoi occhi (invece non sta accadendo nulla).
    Sono altresì presenti sintomi fisici, come palpitazioni cardiache, difficoltà respiratorie, dolore o disagio toracico, sensazioni di soffocamento, sudorazione eccessiva e vertigini.

    L’attacco si verifica in un periodo di tempo circoscritto e spesso determina ulteriori sentimenti, come paura di impazzire, di perdere il controllo o di morire.

    Possono verificarsi in una condizione già alterata da una patologia, come i disturbi d’ansia, altri disturbi mentali (ad esempio, disturbi dell’umore, disturbi correlati a sostanze) e in alcune condizioni mediche generali (ad esempio, ipertiroidismo).


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    Il disturbo può essere accompagnato in alcuni casi da agorafobia, determinando di fatto due diagnosi distinte.
    Molti biologici ritengono che gli attacchi di panico siano causati dalla iperattività del cosiddetto circuito della paura, un circuito cerebrale che include nuclei come l’amigdala, l’ippocampo, il nucleo ventro-mediale dell’ipotalamo, la materia grigia centrale e il locus coeruleus.

    Gli psichiatri prescrivono farmaci antidepressivi o benzodiazepine per trattare le persone con questo disturbo.

    La teoria cognitivo-comportamentali postula che le persone inclini agli attacchi di panico si preoccupano eccessivamente di alcune loro sensazioni corporee, interpretandole erroneamente come sintomi di un’acuzie (ad esempio un infarto in corso).
    I terapisti cognitivo-comportamentali fanno sì che i clienti apprendano a interpretare le loro sensazioni fisiche in modo meno catastrofico.


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    di Emanuele Fazio

    La probabilità condizionata

    In un parco pubblico, io e il mio amico Brando incontriamo il sig. Rossi che passeggia assieme a un ragazzo.
    Dopo averlo salutato e esserci allontanati, il mio amico Brando mi propone il seguente rompicapo:

    il sig. Rossi ha due figli. Quante probabilità ci sono che anche l’altro figlio sia maschio, dato che uno dei due, come abbiamo visto, è maschio

    Stiamo parlando della probabilità condizionata, cioè della probabilità che un dato evento che chiamiamo B si verifichi (nel nostro caso l’evento B è anche l’altro figlio sia maschio) in funzione del fatto che un altro evento che chiamiamo A e ad esso collegato si sia verificato (come nel caso nostro) o che si possa verificare. L’evento A è uno dei due è maschio.
    L’evento B è detto evento condizionato, mentre l’evento A è detto evento condizionante.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    La probabilità condizionata spiegata passo dopo passo
    Quindi, riformulando la domanda di Brando, diremo:

    Quante probabilità ci sono che si verifichi l’evento B, dopo che si è verificato l’evento A?

    Prima di provare a risolvere il rompicapo sulla probabilità condizionata del nostro amico Brando, facciamo un passo indietro, iniziando col dire che in natura, tutte le combinazioni possibili, dati due figli, sono le seguenti:

    maschio/maschio, maschio/femmina, femmina/maschio, femmina/femmina.

    Molto probabilmente, alcuni avranno invece pensato a qualcosa del genere:

    o sono entrambi maschi, o sono entrambe femmine, oppure sono maschio e femmina.

    Tuttavia, solo la prima formulazione è quella che ci aiuterà a risolvere il rompicapo, e cioè

    maschio/maschio, maschio/femmina, femmina/maschio, femmina/femmina.

    Ampliando questa formulazione, possiamo dire anche in questo modo:

    Quando si hanno due figli, si avrà un primogenito e un secondogenito (per i gemelli possiamo considerare chi viene alla luce per primo). Se indichiamo con il numero 1 il primogenito e con il numero 2 il secondogenito, le combinazioni possibili sono le seguenti:

    1 Maschio 2 Maschio
    1 Maschio 2 Femmina
    1 Femmina 2 Maschio
    1 Femmina 2 Femmina

    Facciamo un altro esempio
    Immaginiamo di avere due dadi (i due figli) e che il numero pari significhi maschio, mentre il numero dispari significhi femmina.

    Vediamo prima la differenza tra risultato e combinazione.

    Lanciando i dadi, posso ottenere 11 risultati: 2,3,4,5,6,7,8,9,10,11,12.

    Ma attenzione! Le combinazioni sono invece 36.

    Ecco le combinazioni, aiutandoci con una tabella:

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Capiamo meglio la differenza tra risultato combinazione con un esempio.
    Prendiamo il risultato 7. Lo posso ottenere con le seguenti combinazioni (il primo numero è il primo dado, il secondo numero è il secondo dado):

    1/6, 2/5, 3/4, 4/3, 5/2 e 6/1

    Ben sei combinazioni (su 36)!

    Vediamo il risultato 10.

    4/6, 5/5, 6/4

    Solo 3 combinazioni (su 36)

    Torniamo alla probabilità condizionata (tratteremo subito dopo anche il rompicapo)

    Avevamo supposto i due dadi essere i due figli e i risultati pari corrispondere a maschio mentre i dispari corrispondono a femmina.

    Quindi le combinazioni con due numeri pari corrispondono a due figli maschi, le combinazioni con due numeri dispari corrispondono a due figlie femmine e le rimanenti a maschio e femmina o femmina e maschio.
    Più precisamente, primo numero pari/secondo numero dispari corrisponde a maschio e femmina mentre primo numero dispari/secondo numero pari corrisponde a femmina e maschio.

    Iniziamo da due numeri pari (e che vedi sottolineati)

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono in tutto 9 (su 36).

    Passiamo a due numeri dispari

    Adesso, sottolineiamo due numeri dispari, corrispondenti a due figlie femmine.

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono di nuovo 9 (su 36).

    Passiamo a pari e dispari

    Vediamo adesso la combinazione maschio e femmina, rappresentata dal primo numero pari e dal secondo dispari.

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono 9 (su 36).

    Inutile rubare spazio con la quarta tabella: è evidente che le combinazioni numero dispari/numero pari corrispondente a femmina e maschio sono di nuovo 9 su 36.

    9 su 36 significa 9 diviso 36, cioè ¼. In termini percentuali si può scrivere .25 oppure 25%.

    Abbiamo pertanto le seguenti probabilità, dati due figli:

    • entrambi sono maschi (25%)
    • entrambe sono femmine (25%)
    • il primo è maschio e la seconda è femmina (25%)
    • la prima è femmina e il secondo è maschio (25%).
    Passiamo adesso al rompicapo.

    Poiché almeno uno dei due figli è maschio, come abbiamo visto, una cosa a questo punto è certa: il sig. Rossi non ha due figlie femmine.
    Rimangono pertanto tre possibilità: entrambi maschi, il primo maschio e la seconda femmina e la prima femmina e il secondo maschio.
    Le combinazioni possibili viste in precedenza con l’ausilio delle tabelle, si riducono da 36 a 27, poiché dobbiamo eliminare le combinazioni primo numero dispari/secondo numero dispari, corrispondente a due figlie femmine.

    La combinazione maschio/maschio è pari a 9 su 27, pari a 1/3 o 33,33%, che è anche la soluzione al nostro rompicapo. Infatti, negli altri due casi possibili (maschio/femmina e femmina/maschio) l’altro figlio è sempre femmina, stante che uno è certamente maschio e che per esclusione l’altro non può essere che femmina. 

    Alcune importanti precisazioni sulla probabilità condizionata

    Poniamo il caso che quel giorno non avessimo incontrato il sig. Rossi e che Brando mi avesse posto la seguente domanda:

    Un mio conoscente, il sig. Rossi, ha due figli. Quante probabilità ci sono che siano entrambi maschi?

    In questo caso non si tratta di un problema di probabilità condizionata (o distribuzione di probabilità a posteriori) ma di un problema di distribuzione di probabilità a priori.

    Poiché a priori, cioè null’altro dato se non il puro dato statistico, la probabilità che dati due figli, entrambi siano maschi è pari al 25%, la risposta non può che essere questa.

    Un altro modo per risolvere il rompicapo è attraverso l’utilizzo della formula di Bayes, di cui parliamo in questo articolo.

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    Emozione

    L’emozione è uno stato mentale e fisiologico determinato e associato a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la definizione della Associazione Psicologica Americana, un’emozione è un modello fenomenico complesso, di natura reattiva, che coinvolge varie esperienze soggettive, sia di natura fisica (comportamenti, riflessi, attivazione fisiologica) che psicologica (esperienza soggettiva, processi cognitivi), non sempre a livello consapevole. Si tratta di un modello funzionale, frutto dell’evoluzione, al fine di fronteggiare fenomeni o eventi con il quale un organismo entra costantemente in relazione significativa.

    Emanuele Fazio
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    La sregolazione emotiva è stata definita come l’incapacità di incrementare, mantenere o diminuire le emozioni negative o positive, con il risultato di rendere difficoltoso oppure impossibile il raggiungimento di un obiettivo desiderato ovvero l’adattamento psicofisico e specie-specifico alle situazioni socio-ambientali che si determinano attorno al soggetto. Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto. Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone opportunità, il manifestare gioia in contesti inappropriati

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    La regolazione delle emozioni

    La regolazione delle emozioni è una componente fondamentale dei processi psicologici, intendendosi l’insieme dei processi attraverso cui sono modulate le emozioni in noi stessi e negli altri. La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo degli impulsi sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche degli stimoli ambientali, delle relazioni con gli altri e degli stessi processi psichici, costituendo il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.

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    A che servono le emozioni?

    In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente. Secondo Antonio Damasio, le emozioni potrebbero non essere un semplice corollario ai processi cognitivi, ma evolutivamente la prima e per lungo tempo unica modalità di acquisire conoscenza circa l’ambiente che circonda l’organismo, con la finalità di consentire all’organismo di riorganizzare la propria struttura e/o le proprie funzioni e/o il proprio comportamento in funzione delle informazioni in entrata, che sono sempre e comunque convertite in reazioni biofisiche e biochimiche del nostro organismo (in primis il cervello). La cognizione rappresenta una modalità di rappresentazione di queste modificazioni biochimice e biofisiche, e che è sempre riducibile a sua volta ad attività biochimiche e biofisiche, tale per cui il comportamento risulta la determinante ultima di tutti questi processi.
    Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche).

    Emanuele Fazio
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  • La teoria delle emozioni di Nico Frijda

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    Nico Frijda

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    di Emanuele Fazio

    La teoria delle emozioni di Nico Frijda

    La teoria e il modello teorico esplicativo proposto da Nico Frijda, descrive l’emozione come un fenomeno complesso, multicomponente, che predispone l’organismo ad una o più reazioni. Le componenti sono sei: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e infine la risposta comportamentale (o coping). Secondo il modello di Frijda, la componente principale è la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, in quanto tale spinta è in grado di regolare efficacemente l’intero processo, il quale si conclude:

    • con la messa in atto della risposta più adattiva per il soggetto;
    • l’attribuzione di un nome all’emozione provata;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari.

    Ad esempio, la propriocezione di una tensione muscolare intenzionale verso l’oggetto regola:

    • il comportamento di attacco;
    • l’attribuzione del termine “rabbia” alla propriocezione;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari (valutazione di ciò che si sta ottenendo per il tramite dell’attacco e valutazione di un cambio di strategia che ottimizzi i costi in funzione dei benefici, che potrebbero includere la fuga (cambio del termine in “paura”).

    Il modello presenta molte affinità concettuali con quello proposto nel 1884 da William James

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  • La regolazione delle emozioni: il modello di James Gross

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    La regolazione delle emozioni: il modello di James Gross

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    di Emanuele Fazio

    Il modello di regolazione delle emozioni di James Gross

    Un modello teorico autorevole di regolazione delle emozioni è quello di processo, formulato da James Gross.
    Secondo questo modello la regolazione delle emozioni si riferirebbe ai processi attraverso i quali gli individui influenzano le emozioni vivono, quando le vivono, e come sperimentano ed esprimono queste emozioni. Il modello di processo non giudica le strategie di regolazione delle emozioni come “buone” o “cattive”, poiché esse possono essere considerate adattive o disadattive, a seconda del contesto e del risultato cui portano.
    Più nel dettaglio, James Gross ha definito la regolazione delle emozioni come una capacità umana espressa attraverso un processo che, partendo dalla presa d’atto cosciente di stare provando una precisa emozione, consente al soggetto di farne una completa esperienza soggettiva oltre alla attivazione e gestione delle azioni di controllo e monitoraggio del proprio comportamento (agito e/o pensato) e il conseguente riaggiornamento dell’esperienza soggettiva (feedback circolare dinamico).

    Emanuele Fazio
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    James Gross ha individuato tre variabili che sono funzione del successo ottenuto nel processo di regolazione delle emozioni:
    • avere una utilità specifica e motivante (equivale alla risposta alla domanda: quanto utile risulterà adottare una strategia di regolazione delle emozioni?
    • la capacità di adozione efficace di una o più strategie tra quelle individuate da Gross e raccolte in cinque gruppi: selezione della situazione, modifica della situazione, distribuzione delle risorse attentive, ristrutturazione cognitiva e modulazione della risposta (equivale alla risposta alle domande: quanto sarò capace di adottare una strategia di regolazione? Saprò scegliere la più adatta? Quanto dipenderà dalla efficacia/efficienza della mia risposta e quanto dipenderà da fattori che non sono in alcun modo controllabili e quindi regolabili?
    • l’importanza accordata al risultato ottenuto o ottenibile (equivale alla domanda: il risultato che otterrò, migliorerà il mio benessere/attenuerà o eliminerà il mio malessere?
    In particolare, l’attenzione di Gross si è concentrata su due particolari tecniche:

    la riconsiderazione cognitiva (cognitive reappraisal), una delle strategie facente parte del gruppo “ristrutturazione cognitiva” e la soppressione (suppression) una delle strategie facente parte del gruppo “modulazione della risposta”. Diversi esperimenti condotti sia da Gross che da altri ricercatori hanno evidenziato che la riconsiderazione cognitiva risulterebbe più efficace della soppressione e che in molti casi la soppressione non produce risultati positivi.
    La ricerca però sembra suggerire che esistono strategie di regolazione emotiva tipicamente adattive e altre tendenzialmente disadattive. Tra le prime troviamo soprattutto la strategia della rivalutazione. La ricerca scientifica ha dimostrato che è possibile promuovere e potenziare lo sviluppo di queste funzioni, con correlate modificazioni al cervello e al sistema nervoso centrale, attraverso pratiche ed esercizi mirati sia nell’età evolutiva che nell’adulto.
    Tra queste pratiche, Gross ha posto una particolare enfasi sulla pratica mindfulness.

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    Oggi parleremo dell’ansia. Ricordi l’ultima volta che improvvisamente hai iniziato a respirare affannosamente, hai sentito i tuoi muscoli tendersi e il battito del cuore accelerare?
    È stato quando la tua auto è quasi uscita di strada sotto la pioggia?
    Quando a scuola la professoressa voleva interrogare qualcuno e tu non ti sentivi abbastanza preparato?
    Che dire di quando la persona di cui ti eri innamorato ne frequentava invece un’altra, o il tuo capo ha detto che le tue prestazioni lavorative dovrebbero migliorare?


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    Mi chiamo Emanuele Fazio e sono uno psicologo.
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    Che cos’è l’ansia?

    Ogni volta che affronti quella che sembra essere una seria minaccia al tuo benessere, puoi reagire con una emozione chiamata paura.
    A volte però non riesci a individuare una causa specifica per il tuo stato di allarme, ma ti senti comunque teso e nervoso, come se ti aspettassi che accada qualcosa di spiacevole: la vaga sensazione di essere in pericolo è solitamente chiamata ansia e ha le stesse caratteristiche – gli stessi aumenti della respirazione, della tensione muscolare, della sudorazione e così via – della paura.

    Sebbene le esperienze quotidiane di paura e ansia non siano piacevoli, spesso sono utili.

    Ci preparano all’azione – per “combattere o fuggire” – quando un pericolo (vero o presunto) minaccia il nostro benessere o la nostra incolumità.
    Ansia e paura possono costringerci a guidare con maggiore cautela durante un acquazzone, ad adempiere scrupolosamente ai compiti che ci vengono assegnati da professori o capi, a trattare i nostri amici in un modo tale da non dover poi temere in una loro reazione ostile.
    Sfortunatamente, alcune persone soffrono di paura e/o ansia in modo così invalidante da non poter condurre una vita normale.
    Il loro disagio è troppo grave e/o troppo frequente, dura troppo a lungo e/o si innesca troppo facilmente. Si dice che queste persone soffrono di un disturbo d’ansia o un tipo di disturbo correlato.


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    I disturbi d’ansia sono i disturbi mentali più comuni in Italia.

    In un dato anno circa il 19% della popolazione adulta soffre di uno dei diversi disturbi d’ansia identificati dal DSM-5, mentre quasi il 31% di tutte le persone sviluppa uno dei disturbi ad un certo punto della propria vita.
    Solo il 42% circa di queste persone riceve un trattamento farmacologico e/o psicologico.

    Le persone con fobie specifiche hanno una paura persistente e irrazionale di un particolare oggetto, attività o situazione.
    Le persone con agorafobia temono di trovarsi in luoghi pubblici come negozi o cinema.
    Quelle con disturbo d’ansia sociale hanno un’intensa paura delle situazioni sociali o di essere costrette a dover fare qualcosa che le faccia poi sentire in imbarazzo.
    Quelle con disturbo di panico hanno attacchi ricorrenti.

    La maggior parte delle persone con un disturbo d’ansia soffre anche di un secondo disturbo della stessa specie e in genere soffrono anche di depressione.

    Inoltre, l’ansia gioca un ruolo importante nei disturbi ossessivo-compulsivi e correlati.
    Le persone con questi disturbi si sentono invase da pensieri ricorrenti che causano ansia o dalla necessità di eseguire determinate azioni ripetitive per provare a ridurla.

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    L’attenzione

    L’attenzione è una funzione mentale principalmente cosciente, che permette di selezionare e discriminare degli stimoli nell’ambiente trascurandone altri. Nel modello di Baddeley e Hirsth, è gestita dall’esecutivo centrale, che sovraintende inoltre le altre componenti quali il taccuino visuo-spaziale, il loop fonologico e il buffer episodico.
    Può essere rivolta volontariamente o richiamata in modo automatico dalle caratteristiche dello stimolo, ma rimane comunque un fenomeno di cui siamo generalmente consapevoli.

    Emanuele Fazio
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    L’attenzione seleziona gli stimoli e attiva i meccanismi che provvedono a immagazzinare le informazioni nei depositi della memoria a breve termine (MBT) e nella memoria a lungo termine (MLT). L’attenzione influenza anche l’efficacia delle prestazioni nei compiti di vigilanza.
    Un importante aspetto dello studio dei livelli di vigilanza è quello relativo al livello di attivazione o arousal: il livello di arousal è un fattore molto importante nell’efficienza di una prestazione o in un compito. A bassi livelli di arousal l’individuo si distrae facilmente, mentre a livelli elevati, l’arousal attiva l’ansia che ha un effetto dannoso sull’efficienza in quanto la distraibilità aumenta. Secondo la teoria dei livelli di attivazione esistono indici fisiologici del livello di attivazione come la riduzione del ritmo cardiaco, un aumento del diametro pupillare e della conduzione cutanea. L’attenzione e il livello di attivazione sono due processi correlati ma non si identificano l’uno con l’altro: l’attivazione può essere descritta come un dato globale dell’organismo che si svolge lungo un continuum, mentre l’attenzione è considerata come una funzione selettiva collegata con il livello di attivazione, ma che non coincide con esso. L’attenzione è un concetto multiforme che include:

    • Attenzione selettiva: riguarda la selezione di determinate informazioni lasciandone decadere altre. • Attenzione divisa: è la capacità di svolgere contemporaneamente compiti diversi tra di loro.
    • Attenzione sostenuta o vigilanza: è la capacità di prestare lungamente attenzione ad una certa fonte di informazioni.

    È possibile, infine, distinguere un’attenzione che si attiva a livello cosciente e un tipo di attenzione automatico o inconscia che registra automaticamente le informazioni provenienti dall’ambiente.

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  • La sregolatezza emotiva

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    La sregolatezza emotiva

    I fattori di rischio della salute mentale

    di Emanuele Fazio

    La sregolatezza emotiva è stata definita come l’incapacità di incrementare, mantenere o diminuire (in una sola parola: regolare) le emozioni, sia positive che negative. Il risultato è quello di rendere difficoltoso oppure impossibile il raggiungimento di un obiettivo desiderato ovvero l’adattamento psicofisico e specie-specifico alle situazioni socio-ambientali che si determinano attorno al soggetto.
    Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto.
    Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone occasioni, il manifestare gioia in contesti inappropriati, arrabbiarsi per futili motivi.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Psicologo a Roma nord

    La regolazione delle emozioni

    Un elemento fondamentale delle emozioni è quindi la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui è possibile mediare o moderare le nostre emozioni.
    La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche relazionali.
    Esse costituiscono il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.
    Esistono diversi modelli di regolazione delle emozioni come ad esempio quello di Gross, quello di Parkinson e Totterdell e quello di Richard Lazarus.

    In un altro articolo affronto con maggiore dettaglio il tema della regolazione delle emozioni.

    Sregolatezza e psicopatologia

    La sregolatezza emotiva è associata a numerosi disturbi di tipo somatico e comportamentale, tra questi ultimi soprattutto le dipendenze. Inoltre, è associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Inoltre è associata a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello.
    La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria biosociale proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità. La terapia dialettico comportamentale prevede l’insegnamento di opportune life skill per migliorare la regolazione emotiva.

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    Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto.
    Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone occasioni, il manifestare gioia in contesti inappropriati, arrabbiarsi per futili motivi.

    Indice

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      La regolazione delle emozioni

      Un elemento fondamentale delle emozioni è quindi la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui è possibile mediare o moderare le nostre emozioni.
      La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche relazionali.
      Esse costituiscono il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.
      Esistono diversi modelli di regolazione delle emozioni come ad esempio quello di Gross, quello di Parkinson e Totterdell e quello di Richard Lazarus.

      In un altro articolo affronto con maggiore dettaglio il tema della regolazione delle emozioni.

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      La sregolatezza emotiva è associata a numerosi disturbi di tipo somatico e comportamentale, tra questi ultimi soprattutto le dipendenze. Inoltre, è associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Inoltre è associata a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello.
      La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria biosociale proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità. La terapia dialettico comportamentale prevede l’insegnamento di opportune life skill per migliorare la regolazione emotiva.

    • Memoria

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      Glossario di psicologia

      Memoria

      Per saperne di più

      di Emanuele Fazio

      La memoria

      La memoria è la facoltà del cervello grazie alla quale molta della nostra esperienza viene trattenuta, codificata, immagazzinata e all’occorrenza decodificata e recuperata. Deriva dal latino memor, con il significato di che si ricorda, derivato a sua volta da una radice sanscrita e presente anche nel greco classico μνημη (mneme).

      La memoria è la custodia delle informazioni apprese durante il corso di vita, al fine di utilizzarle nel presente e per quanto riguarda la specie umana, fare previsioni e adottare decisioni in merito a possibili eventi futuri, sia prossimi che anteriori.

      Senza il ricordo degli eventi passati, non sarebbe stato possibile lo sviluppo del linguaggio, della cultura, delle relazioni sociali, dell’identità personale e sociale.

      Emanuele Fazio
      Psicologo a Roma Nord


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      blog di psicologia

      Che cos’è la memoria

      La memoria è spesso intesa come un sistema di elaborazione delle informazioni con funzionamento in modalità esplicita e implicita, e che coinvolge funzioni cognitive come la sensazione[1], la percezione, l’apprendimento, le emozioni e molte altre ancora. A sua volta la memoria viene coinvolta nelle stesse funzioni, siano esse cognitive, emotive e comportamentali.

      Memoria individuale e collettiva

      Una prima suddivisione dei diversi tipi di memoria è quella tra memoria individuale e memoria collettiva. La prima elabora informazioni che derivano dall’esperienza del singolo mentre la seconda elabora informazioni che sono condivise tra più individui e che pertanto confluiscono in un particolare magazzino chiamato cultura, in stretta relazione con altri fenomeni come il linguaggio, la comunicazione, l’espressione artistica, la religione.

      Memoria di lavoro e memoria a lungo termine

      I sistemi sensoriali – vista, udito, olfatto, gusto, tatto, propriocezione[2], sistema vestibolare e interocezione – consentono di rilevare informazioni dal mondo esterno alla mente e sotto forma di stimoli fisici e chimici. I sistemi sensoriali sono inoltre coinvolti nei vari livelli di processamento delle informazioni. Come si diceva prima, la memoria fa parte di questo complesso meccanismo di processamento, ed è possibile distinguerla funzionalmente in memoria di lavoro (working memory) e in memoria di lungo termine. La memoria di lavoro si occupa di codificare, recuperare e decodificare le informazioni; la memoria di lungo termine si occupa di memorizzare i dati attraverso sistemi e modelli categoriali. Tali processi di codifica, recupero e decodifica – nonché di ritenzione o immagazzinamento – vengono espletate per mezzo di strutture e processi sia di natura anatomo-fisiologica che di natura mentale e attraverso una modalità definita esplicita o implicita.

      Memoria esplicita e implicita

      La modalità esplicita è riconducibile a quel tipo di memoria chiamata appunto esplicita o dichiarativa, e caratterizzata da intenzionalità e consapevolezza dei processi mnesici, mentre la modalità implicita è riconducibile a quel tipo di memoria chiamata appunto implicita o non dichiarativa, e caratterizzata da automaticità e inconsapevolezza di tutto o parte del processo mnesico, oltre che afferente in genere a compiti o procedure di routine, come ad esempio guidare un veicolo dopo anni di esperienza.

      Memoria semantica, episodica e autobiografica

      La memoria esplicita – o dichiarativa – è ulteriormente categorizzabile in: semantica, episodica e autobiografica.
      Al primo tipo appartengono tutte le informazioni codificate in funzione del loro significato, come ad esempio ricordare che un determinato oggetto si chiama barometro e a che cosa serve.
      Al secondo tipo appartengono in genere le stesse informazioni, ma collocate in determinate coordinate spazio-temporali, come ad esempio il fatto di aver visto un oggetto chiamato barometro in un determinato luogo e in una determinata circostanza. Pertanto esperienze vissute in terza persona.
      Infine, al terzo tipo appartengono tutte quelle informazioni, anche di tipo semantico e episodico, ma che riguardano esperienze vissute in prima persona dall’individuo, come ad esempio il fatto di aver comprato e regalato il barometro alla propria fidanzata.

      Memoria procedurale, percettiva e priming

      La memoria implicita – o non dichiarativa – è ulteriormente categorizzabile in: procedurale, percettiva e priming.

      Procedurale

      Al primo tipo appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze precedenti e che consentono l’esecuzione di diversi compiti, sia cognitivi che comportamentali/motori ed anche emotivi, senza la consapevolezza cosciente dell’utilizzo di tali esperienze.

      Percettiva

      Al secondo tipo – detto anche sistema di rappresentazione percettiva – appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze precedenti e che consentono il riconoscimento veloce e l’identificazione di oggetti e parole di cui si fa esperienza successiva. Importante specificare che il sistema di rappresentazione percettiva non riconosce il significato degli stimoli, funzione questa che è demandata alla memoria semantica.

      Priming

      Al terzo tipo appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze molto più recenti rispetto a quelle coinvolte nella memoria procedurale e nella memoria percettiva – se non addirittura immediatamente precedenti – e che determinano maggior facilità oppure rallentamento o inibizione della elaborazione successiva delle informazioni.
      Inoltre, nel priming della ripetizione, la presentazione di un particolare stimolo sensoriale aumenta la probabilità che il soggetto identifichi più agevolmente lo stesso oppure uno stimolo simile presentato in sequenza, mentre nel priming semantico, la presentazione di uno stimolo dotato di significato cognitivo e/o emotivo influenza il modo in cui i partecipanti interpretano uno stimolo successivo, non necessariamente simile al precedente.

      Smemoratezza e amnesia

      Difficoltà nell’uso di questa facoltà fondamentale sono definite come smemoratezza e nei casi più gravi amnesia. Forme di malfunzionamento della memoria sono tuttavia rilevabili a vario livello in tutti gli individui, come ad esempio nei casi in cui si rende necessario ricostruire il ricordo di un evento ai fini di rendere testimonianza ad un processo o di prendere una decisione, oppure nelle rievocazioni mnesiche affioranti nel corso di sedute psicanalitiche o di ipnositerapia, o ancora a seguito di traumi fisici o psicologici e in tutti quei casi in cui si è presenza di elevato arousal quale conseguenza di stati emotivi particolarmente intensi, sia positivi che negativi.

      Herman Ebbinghaus

      Il primo autore a studiare sperimentalmente la memoria e i suoi meccanismi fu Herman Ebbinghaus, che nella seconda metà del XX secolo condusse una serie di esperimenti impersonando il doppio ruolo di sperimentatore e di (unico) soggetto sperimentale, evidenziando l’esistenza di relazioni non casuali tra apprendimento e memoria.

      Il metodo implementato da Hebbinghaus – memorizzazione di materiale semplice, come appunto sillabe prive di significato, effettuata in ambiente rigorosamente controllato per evitare l’influenza di altre variabili – fu chiamato apprendimento verbale e ha caratterizzato la successiva ricerca, fino ai nostri giorni.

      In particolare postulò – tra le altre cose – la cosiddetta curva dell’oblio, denominazione di quel particolare fenomeno per cui a seguito dell’apprendimento di sillabe senza senso, si assiste ad un improvviso calo della ritenzione poco dopo l’apprendimento, seguito da un declino più graduale in seguito.
      Postulò inoltre l’effetto distanziamento (spacing effect), cioè quel fenomeno per cui l’apprendimento scaglionato in diverse e brevi sessioni di studio porta ad una migliore ritenzione del materiale appreso rispetto a poche e lunghe sessioni.

      Endel Tulving

      Un approccio alternativo all’apprendimento verbale fu quello introdotto a partire dagli anni ’30 del secolo scorso dalla psicologia della Gestalt.  I teorici di questo movimento provarono a utilizzare nello studio della memoria le evidenze che erano emerse nei loro studi sulla percezione. Diversamente da quanto teorizzato dai primi comportamentisti, la Gestalt enfatizzava l’importanza delle rappresentazioni interne che i singoli soggetti sperimentali modellavano degli stimoli, evidenziando il ruolo attivo – e non passivo, come invece ipotizzava il comportamentismo – del soggetto che apprende. La Gestalt influenzò il lavoro di un importante psicologo della memoria: Endel Tulving, il primo a teorizzare due tipologie distinte di memoria esplicita: la memoria semantica e la memoria episodica.

      Un altro contributo di Tulving è stato quello di distinguere tra memoria esplicita (consapevole) e memoria implicita (automatica), in particolare attraverso lo studio dei meccanismi di priming, come già evidenziato all’inizio di questo elaborato.

      Frederic Charles Bartlett

      Un ulteriore approccio che prendeva le mosse dal concetto di rappresentazioni interne proposto dalla Gestalt fu quello di Frederic Charles Bartlett, il quale piuttosto che studiare la capacità di ritenzione di dati privi di significato al termine di specifiche sessioni di apprendimento, era più interessato a studiare il modo con cui tali dati venivano codificati e immagazzinati per poi essere all’occorrenza recuperati e decodificati. Il suo metodo consisteva nel proporre ai soggetti sperimentali un racconto proveniente da una cultura diversa – nel suo caso era quella dei nativi americani. Successivamente veniva richiesto di ripetere la narrazione, evidenziandosi in tal modo la circostanza per cui i soggetti sperimentali ripetevano la storia accorciandola rispetto alla versione originale, e modificando sia la sintassi che il significato in funzione del proprio punto di vista culturale, che era quello occidentale.

      A differenza di Ebbinghaus, Bartlett esplorava quindi l’influenza della componente semantica del dato appreso sulla componente sintattica, la forma assunta dal contenitore in funzione del dato contenuto, forma che a sua volta modifica il contenuto in un processo di feedback circolare. Tale componente semantica era inoltre influenzata da quanto precedentemente appreso e conosciuto, sia in termini di memoria individuale che di memoria sociale, come già visto in apertura.

      Il concetto di schema

      Ecco introdotto il concetto di schema, una struttura mentale che rappresenta un dato oggetto del mondo, comprese le sue qualità e le relazioni tra queste. Gli schemi sono astrazioni che semplificano lo stare al mondo, secondo il noto assunto heideggeriano. Secondo Bartlett, anche le persone significative della nostra vita che abbiamo elevato – consapevolmente o inconsapevolmente – a modelli da imitare, emulare oppure semplicemente da tenere in considerazione sono immagazzinati nei nostri ricordi sotto forma di schemi.

      Alan Baddeley

      La definizione working memory è l’evoluzione della precedente definizione memoria a breve termine (originariamente postulata da Pribram e Galanter) ed è stata proposta da uno dei massimi studiosi contemporanei, Alan Baddeley.

      Si intende un sistema di ritenzione a breve termine dell’informazione in entrata che ne permetta la manipolazione e l’elaborazione ai fini dell’apprendimento, del ragionamento e infine dell’immagazzinamento nella cosiddetta memoria a lungo termine. È pertanto un sistema di memoria che sostiene la nostra capacità di “tenere a mente le cose” quando si eseguono compiti complessi. Il modello proposto da Baddeley prevede quattro componenti: il taccuino visuo-spaziale, che aiuta a mantenere le informazioni visive e la loro collocazione nello spazio, il loop fonologico, che aiuta a mantenere le informazioni sonore (in genere il linguaggio). Si tratta in entrambi i casi di sistemi di memoria, in quanto è possibile applicare su di essi le note mnemotecniche. La terza componente è l’esecutivo centrale, un meccanismo di controllo (e quindi non un sistema di memoria) che sovrintende l’intero processo e che è responsabile inoltre di assegnare le risorse attentive che ritiene più opportune ai vari stimoli (visivi e sonori in primis). Una quarta componente fu aggiunta da Baddeley nel 2000 e chiamata episodic buffer, un meccanismo in grado di trattenere un flusso di dati (streaming) per alcuni istanti e che mette in collegamento la working memory con la memoria a lungo termine, in particolare con la cosiddetta memoria episodica. Più specificatamente, opera una codifica dei dati in entrata tale da consentire il recupero dalla memoria episodica di altri dati codificati allo stesso modo e sovrintende anche l’immagazzinamento dei dati raccolti e codificati.

       

      [1] È discutibile l’appartenenza dei processi sensoriali alla categoria dei processi cognitivi. Infatti la sensazione, per mezzo dei suoi agenti – i sensi – è prevalentemente fisico-chimica e molto poco mentale, stante che i sensi catturano e trasmettono per via afferente al cervello informazioni circa l’esistenza e l’essenza dei molteplici fenomeni fisico-chimici che accadono attorno all’individuo. Tali fenomeni fisico-chimici sono ad esempio le onde elettromagnetiche che consentono sia la visione che l’ascolto, e i fenomeni prodotti dalla meccanica delle molecole (cinematica, dinamica e statica), che consentono il tatto, il gusto e l’olfatto.

      [2] La sensazione del corpo in movimento e delle singole posizioni assunte, quale risultante della stimolazione dei propriocettori dei muscoli. La propriocezione ha la finalità di determinare l’orientamento spaziale (senza l’ausilio della vista) e di mantenere una postura stabile

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    • Sentimento

      sentimento

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      Sentimento

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      di Emanuele Fazio

      Sentimento

      Con il termine sentimento (feeling) si intende una esperienza vissuta da un singolo individuo e determinata sia da cause esterne che da cause interne.
      Il sentimento è un fenomeno soggettivo, a cui è possibile attribuire un valore quantitativo e qualitativo e un nome per definirlo.
      Esso è indipendente per quanto associato alla sensazione, al pensiero o a quant’altro abbia concorso a determinarlo.

      Da notare che il sentimento è molto vicino alla sensazione, sia da un punto di vista linguistico – la sensazione in inglese è anche detta physical feeling – che da un punto di vista della architettura mente/cervello.

      I valori qualitativi più adoperati nel linguaggio comune e nel linguaggio scientifico sono: positivo/negativo, piacevole/spiacevole.
      Ciò che differenzia il sentimento da altre esperienze fenomeniche come il pensiero, la sensazione, la percezione è per l’appunto il fatto che si possa dare ad esso una valutazione.
      Ciò che noi diciamo pensiero negativo o sensazione spiacevole oppure percezione positiva non è altro che il valore attribuito al sentimento ad essi associato e da loro determinato. Sentimento ed emozioni sono due cose diverse. L’ emozione è un fenomeno che implica, il coinvolgimento di strutture e funzioni neurofisiologiche (in primis i due assi SMA e HPA) di strutture e funzioni mentali per l’attribuzione di una causa e quindi di un nome, mentre il sentimento è un fenomeno esclusivamente mentale – mental feeling, per l’appunto.
      Si tratta in entrambi i casi di strumenti di comunicazione: l’espressione delle emozioni ci permette di comunicare con il mondo esterno mentre il sentimento ci permette di comunicare con il mondo interno, per quando esistano nella fattispecie molte sovrapposizioni, stante che spesso sentimento ed emozione sono usati in modo intercambiabile.

      Emanuele Fazio
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    • Come ragionano le persone: la probabilità relativa

      probabilità relativa

      Psicologia del ragionamento

      La probabilità relativa: come ragionano le persone?

      Scopriamo uno dei modi in cui proviamo a ragionare

      di Emanuele Fazio

      La probabilità relativa: come ragionano le persone?

      Ma come ragioni? O più estesamente, come ragionano le persone? La psicologia ha proposto diverse teorie del ragionamento, tra cui il ragionamento attraverso la probabilità relativa.

      Partiamo da un esempio, o meglio, da un problema.

      Problema 1 – Dice Giuseppe: una sola delle due affermazioni che mi accingo a fare è vera, mentre l’altra è falsa:

      1. Ho in mano due carte. Una di queste è un Re, oppure un Asso, oppure un Re e un Asso.
      2. Ho in mano due carte. Una di queste è una regina, oppure un Asso, oppure una Regina e un Asso.

      Quindi, o è vera la prima affermazione (e falsa la seconda) oppure è vera la seconda (e falsa la prima).

      Stando così le cose, è più probabile che Giuseppe abbia in mano un Re che un Asso o viceversa?

      Ipotizzando vera la prima affermazione e falsa la seconda, e utilizzando i connettivi logici, avremmo di conseguenza:

      Una di queste tre giocate: Re, Asso oppure Re+Asso è in mano a Giuseppe. Ciò perché è vera la prima affermazione;

      Nessuna di queste tre giocate: Regina, Asso oppure Regina+Asso è in mano al giocatore. Ciò perché è falsa la seconda affermazione, come conseguenza del fatto che la prima è supposta vera.

      Emanuele Fazio
      Psicologo a Roma Nord


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      psicologo a roma nord

      Facciamo il punto della situazione

      Quando una affermazione è falsa, il modo di ragionare comune in genere non la prende in considerazione.

      Considera solo l’affermazione definita vera.

      Nel nostro caso entrambe le affermazioni sono di tipo dicotomico: se è falsa è tuttavia vero l’incontrario.
      Ecco pertanto che l’affermazione certamente falsa, di tipo dicotomico, ci restituisce in ogni caso un’informazione che in genere non può essere trascurata e che può rivelarsi importante.

      Quando la prima affermazione è vera e la seconda è falsa, le giocate possibili sono:

      1. avere in mano un Re oppure avere in mano un Asso oppure avere in mano un Re + un Asso;
      1. non avere in mano una Regina, nè avere in mano un Asso, e nè avere in mano una Regina + un Asso.

      Quando una affermazione del tipo A oppure B oppure C, come nel caso delle due affermazioni prima dette, è definita falsa, allora A B e C possono verificarsi, come esplicitato al secondo punto riferito alla affermazione falsa.
      Quando la stessa affermazione – oppure una simile – è definita vera, allora o A o B o C possono verificarsi – vedi primo punto – a meno che una o più delle tre, sia anche parte della condizione determinata dalla affermazione falsa, e pertanto va esclusa dalle possibilità espresse dalla affermazione vera.

      Ciò che rende vera una affermazione del tipo o A o B o C come quelle che stiamo attenzionando, è il verificarsi di una qualsiasi delle tre ipotesi denominate A, B e C.

      Ciò che rende falsa una affermazione del tipo o A o B o C, è il non verificarsi di alcuna delle tre condizioni[1].

      Torniamo al nostro caso

      Poiché l’affermazione falsa esclude la possibilità che ci possa essere un Asso – da solo oppure in compagnia di altra carta – dei tre scenari ipotizzati dalla affermazione vera devono essere esclusi quelli che prevedono la presenza di un Asso – pertanto il secondo e il terzo.
      L’unico scenario possibile rimane pertanto il Re.

      Quando la prima affermazione è vera e la seconda è falsa, l’unica carta possibile in mano a Giuseppe è il Re.

      Come facilmente intuibile, tanto che non ritengo opportuno proporre la spiegazione, lo stesso ragionamento vale quando ad essere falsa è la prima affermazione e ad essere vera la seconda.
      In questo caso l’unica giocata possibile è la Regina.
      In entrambe le possibilità – vera la prima e falsa la seconda oppure falsa la prima e vera la seconda – l’Asso non è mai una giocata possibile, sia da solo che in coppia con altra carta.

      Secondo problema

      Dice Giuseppe: una sola delle due affermazioni che mi accingo a fare è vera, mentre l’altra è falsa:

      1. Ho in mano due carte. Se una delle due è un Fante, allora l’altra è una Regina.
      2. Ho in mano due carte. Se una delle due è un Dieci, allora l’altra è una Regina.

      Quindi, o è vera la prima affermazione (e falsa la seconda) oppure è vera la seconda (e falsa la prima). Stando così le cose, è più probabile che Giuseppe abbia in mano una Regina che un Fante o viceversa?

      Ipotizzando vera la prima e falsa la seconda, avremmo:

      Se c’è un Fante in mano, allora c’è una Regina in mano.

      Se c’è un dieci in mano, allora NON c’è una regina in mano.

      Negare il conseguente è l’unico modo per falsificare una proposizione del tipo se P allora Q.

      Se P allora Q falsificata diventa se P allora non Q, che è una condizione che deve essere necessariamente presente!

      Ma prima di proseguire diciamo alcune cose sulle proposizioni del tipo se P allora Q.

      Nella logica proposizionale, una proposizione del tipo se P allora Q è la prima premessa di una particolare forma di sillogismo chiamata modus ponens.

      Questo sillogismo è formato da due premesse e una conclusione.
      La prima premessa è per l’appunto se P allora Q.
      La seconda premessa stabilisce se P è vera oppure è falsa.
      La conclusione è la logica deduzione, considerando le due premesse.

      Proviamo a fare un esempio utilizzando la prima asserzione.

      Se c’è un Fante in mano, allora c’è una Regina in mano (prima premessa)
      C’è un Fante nella mano (seconda premessa)
      C’è anche una Regina nella mano (conclusione).

      Qualora avessi affermato, come seconda premessa, che non c’è un Fante nella mano, la conclusione sarebbe stata:

      nulla possiamo dire circa la Regina, che potrebbe esserci ma potrebbe anche non esserci.

      Perché? Proviamo a fare un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni.
      Aldo e Giovanni sono due amici inseparabili.
      Praticamente Aldo non fa un passo fuori casa senza essere accompagnato da Giovanni.
      Non si può dire lo stesso di Giovanni.
      A volte Giovanni si accompagna a Giacomo.

      Pertanto: Se vedi in giro Aldo, puoi star certo che c’è anche Giovanni.

      Se Aldo allora Giovanni è la prima premessa del nostro sillogismo.

      La seconda premessa può essere della forma in giro c’è Aldo oppure in giro non c’è Aldo.

      Nel primo caso se in giro c’è Aldo, siamo certi che in giro c’è anche Giovanni (la logica conclusione del nostro sillogismo).

      Nel secondo caso, se in giro non c’è Aldo, nulla possiamo dire di Giovanni, che potrebbe essere uscito con Aldo oppure che potrebbe essere uscito con Giacomo.

      La logica conclusione data la seconda premessa  non c’è Aldo è che nulla possiamo affermare con certezza.

      Le combinazioni possibili del problema numero 2 sarebbero pertanto:

      1. Fante + Regina in relazione alla prima;
      2. Regina in relazione alla prima;
      3. Dieci + no Regina (Dieci senza Regina) in relazione alla seconda;
      4. no Regina in relazione alla seconda

      Ma una più attenta analisi ci suggerisce che 2. non è possibile in quanto contraddirebbe 4.
      Anche 1. contraddirebbe 4. e pertanto l’unica possibile rimane 3.

      Quando ad essere vera è la prima, l’unica mano possibile è Dieci.

      E quando ad essere vera è la seconda?

      Se Giuseppe ha un Fante in mano, allora NON ha una regina in mano.

      Se Giuseppe ha un Dieci in mano, allora ha una Regina in mano.

      Le combinazioni possibili sarebbero pertanto:

      1. Fante + no Regina (Fante senza Regina) in relazione alla prima;
      2. no Regina in relazione alla prima;
      3. Dieci + Regina in relazione alla seconda;
      4. Regina in relazione alla seconda

      Ma una più attenta analisi ci suggerisce che 4. non è possibile in quanto contraddirebbe 2.
      Anche 3. contraddirebbe 2. e pertanto l’unica possibile rimane 1.

      Quando ad essere vera è la seconda, l’unica mano possibile è Fante.

      Nella mano pertanto, prescindendo da quale asserzione sia vera, non ci sarà mai Regina.

      [1] Un esempio renderà tutto più chiaro. Se io dico che seduti al cinema ci sono o Aldo o Giovanni o Giacomo, e poi sostengo di avere affermato il falso, l’interlocutore si aspetta che nessuno dei tre sia seduto al cinema. Se solo uno dei tre, supponiamo Aldo, è seduto al cinema, allora ho affermato il falso quando sostenevo di avere affermato il falso. Di fatto avevo affermato il vero. La locuzione o…o…o può essere sostituita dalla locuzione almeno uno di questiIn logica, almeno uno di questi si falsifica con nessuno di questi.

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      La teoria Aspettativa/Valore

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      di Emanuele Fazio

      La teoria Aspettativa/Valore, anche detta teoria motivazionale di Victor Vroom

      Prima di affrontare la teoria aspettativa/valore, diciamo qualcosa sul concetto di motivazione.
      Secondo l’Associazione Psicologica Americana, la motivazione[1] è la spinta che determina movimento, mantenimento e regolazione del movimento e direzione verso l’ottenimento di uno o più obiettivi, che possono essere sia materiali (come ad esempio del cibo) che immateriali (come ad esempio il raggiungimento e/o il mantenimento di uno stato psicofisico di benessere).
      L’esperienza soggettiva dei comportamenti, pensieri e/o emozioni coinvolti nel processo motivazionale può essere cosciente, non cosciente oppure un mix di entrambe.
      Numerose teorie trattano l’argomento della motivazione mettendo l’accento su componenti diverse ed approfondendo aspetti diversi di questo complesso costrutto.

      Le teorie della motivazione

      Una prima classificazione potrebbe essere individuata differenziando tra teorie motivazionali del contenuto, come ad esempio la piramide dei bisogni di Abraham Maslow, che spiegano la motivazione in funzione dal soddisfacimento di bisogni primari (fisiologici o riconducibili ad essi) – e teorie motivazionali del processo, come ad esempio la teoria aspettativa/valore di Victor Vroom e la teoria dei tre bisogni di David McClelland, le quali, seppur non escludendo l’importanza del soddisfacimento dei bisogni primari, si propongono di spiegare le motivazioni alimentate da bisogni che emergono non solo da uno scompenso della omeostasi fisiologica dell’individuo, ma anche dallo scompenso della omeostasi psicologica, in particolare quella cognitiva, e ancora più specificatamente, dalla differenza tra credenze e aspettative precedenti ad uno o più eventi e credenze e aspettative conseguenti ad uno o più eventi. Un concetto molto simile a quello di probabilità condizionata.

      Abbiamo pertanto:

      • La teoria dei tre bisogni di David McClelland, che spiega come ci comportiamo in base al nostro bisogno di affiliazione, realizzazione e potere;
      • La teoria della piramide dei bisogni di Maslow, basata sul nostro desiderio di soddisfare i nostri bisogni psicofisiologici di base;
      • La teoria/aspettativa valore di Victor Vroom, di cui parleremo in questo articolo.
      Emanuele Fazio
      Psicologo a Roma Nord


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      psicologo a roma nord

      La teoria aspettativa/valore nel dettaglio

      Vroom postula che la motivazione – la variabile dipendente – può essere rappresentata da un numero, il quale è il prodotto della moltiplicazione di tre fattori, le variabili indipendenti, anch’esse esprimibili con un numero. Questi tre fattori sono:

      1. Aspettativa (Expectancy), che corrisponde al grado di fiducia che il lavoratore ripone circa la validità dell’implicazione logica: se e solo se ho le skill necessarie e mi impegno nel compito, allora otterrò un’elevata performance.
        È l’essenza del lavoro ben fatto, a prescindere della buona ricompensa, che come vedremo, è invece l’essenza del concetto di strumentalità.
        Vroom chiama l’aspettativa anche risultato di primo livello.
        È un valore determinato probabilisticamente ed è espresso da un numero con due decimali compreso tra zero e 1;
      2. Strumentalità (Instrumentality), che corrisponde al grado di fiducia che il lavoratore ripone circa la validità dell’implicazione logica: se e solo se otterrò un’elevata performance allora otterrò un’adeguata e soddisfacente ricompensa – non necessariamente economica o solo economica.
        Per Vroom si tratta del risultato di secondo livello.
        È un valore determinato probabilisticamente ed è espresso da un numero con due decimali compreso tra zero e 1;
      3. Valenza (Valence), cioè il valore percepito e attribuito dal lavoratore alla ricompensa.
        La ricompensa include anche la soddisfazione lavorativa, cioè la misura in cui le persone si sentono realizzate durante e al termine del compito eseguito e rispetto al quale sviluppano emozioni positive o negative in caso di insuccesso.
        È un concetto molto simile al rapporto costi/benefici: più precisamente è il valore attribuito alla ricompensa al netto dei costi sostenuti.
      Un esempio renderà la teoria aspettativa/valore più chiara

      Un lavoratore chiamato a partecipare ad un progetto, sa che per ottenere una buona ricompensa, deve fare una buona performance.
      Lo crede fermamente (valore credenza = 1).
      Per il lavoratore fare una buona performance è importante, oltre che per il fattore remunerativo (0,98) e di soddisfazione lavorativa (0,90), anche ai fini di un possibile avanzamento di carriera (1).
      Quindi si pone il valore di Valenza pari a 0,98*0,90*1=0,88.
      L’incidenza del costo (in termini di fatica e stress) è pari a 0,15, e quindi 0,88*(beneficio 1- incidenza del costo 0,15) = 0,75.

      Il lavoratore stima di possedere tutte le skill (capacità e abilità) richieste (0,98), e inoltre è consapevole di essere molto coscienzioso e di potersi adeguatamente impegnare (valore impegno pari a 0,97).
      Pertanto il valore di Aspettativa è pari a 0,98*0,97 = 0,95.

      Tuttavia, il lavoratore crede che una buona raccomandazione aiuta ad ottenere un avanzamento di carriera più che una buona performance e che quindi, qualora vi fosse un raccomandato, la sua buona performance potrebbe non bastare a fargli conseguire parte del risultato (l’avanzamento di carriera).
      Le probabilità che il lavoratore stima circa la veridicità della sua credenza e della effettiva presenza di un raccomandato sono rispettivamente pari a 0,80 e 0,20.
      Ecco quindi che la Strumentalità è pari a 0,80*(1- 0,20) = 0,64.

      Pertanto la motivazione sarà pari a Aspettativa 0,95 * Strumentalità 0,64 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,46

      Inoltre, il lavoratore è già impegnato in un altro progetto, e pertanto non è più sicuro di poter destinare risorse a sufficienza al nuovo progetto.
      Di conseguenza, il valore impegno scende da 0,97 a 0,50 e quindi il valore Aspettativa scende a 0,49, facendo crollare la motivazione a 0,24 

      Aspettativa 0,49 * Strumentalità 0,64 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,24

      Ma accadono alcune cose…

      Intanto, dopo un colloquio con il dirigente, il lavoratore apprende non solo che al progetto non parteciperanno raccomandati, ma che il management ha espressamente posto la condizione che se il progetto andrà a buon fine, il lavoratore otterrà la promozione.
      Il lavoratore farà quindi il seguente ragionamento: la promozione dipende esclusivamente dalla mia performance e non da fattori esterni (1) e ho la massima fiducia che quanto riferitomi dal dirigente sia vero (0,99).

      Le probabilità che il lavoratore stima circa la veridicità della sua credenza e della effettiva presenza di un raccomandato diventano 1 (da 0,80) e 0 (da 0,20). La strumentalità complessiva è pari a 1*(1-0) = 1

      Adesso abbiamo 

      Aspettativa 0,49 * Strumentalità 1 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,37

      Inoltre il lavoratore chiede e ottiene dal dirigente di non essere più impegnato nell’ altro progetto e di potersi dedicare esclusivamente nel progetto in partenza.
      L’impegno risale quindi da 0,5 a 0,97 e pertanto l’aspettativa risale a 0,95.
      Adesso abbiamo 

      Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,71

      Inoltre il dirigente gli assegna per tutta la durata del progetto un alloggio a spese dell’azienda, per evitare lo stress di dover affrontare giornalmente due ore complessive di spostamento in automobile.
      L’incidenza del costo sulla valenza sarà pertanto pari a 0 e i benefici pari a 1 e pertanto il nuovo valore di valenza sarà 0,88*(beneficio 1- incidenza del costo 0) = 0,88.

      Adesso abbiamo 

      Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,88 = Motivazione 0,84

      La dinamica degli eventi recenti ha inoltre aumentato il fattore soddisfazione lavorativa, che da 0,90 passa a 0,98, facendo ulteriormente aumentare la Valenza (0,98*0,98 = 0,96)

      Adesso abbiamo 

      Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,96 = Motivazione 0,91

       

      [1] Motivazione deriva dal latino ”motivus”, sostantivazione da ”motus,” participio passato di ”movere” – in italiano muovere.

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      di Emanuele Fazio

      Teoria della mente

      Con teoria della mente (anche detta TOM) si definisce quella capacità di intendere e di volere, e pertanto tenere in considerazione quando si compie un comportamento (agito e/o pensato), il fatto che gli altri hanno proprie intenzioni, desideri, credenze, percezioni, emozioni e che possono essere in tutto o in parte sia differenti che uguali alle nostre.
      Altra importante capacità, che caratterizza la teoria della mente, è quella di tenere in considerazione costante e proficua il fatto che intenzioni, desideri, credenze etc. influenzano sensibilmente i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri agiti, siano esse nostre o degli altri.
      A sua volta, i pensieri, le emozioni e gli agiti nostri e degli altri influenzano quanto prima detto.
      Si tratta pertanto di una dinamica causativa di tipo circolare.

      Emanuele Fazio
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