Autore: Emanuele Fazio

  • Come ragionano le persone: la probabilità relativa

    probabilità relativa

    Psicologia del ragionamento

    La probabilità relativa: come ragionano le persone?

    Scopriamo uno dei modi in cui proviamo a ragionare

    di Emanuele Fazio

    La probabilità relativa: come ragionano le persone?

    Ma come ragioni? O più estesamente, come ragionano le persone? La psicologia ha proposto diverse teorie del ragionamento, tra cui il ragionamento attraverso la probabilità relativa.

    Partiamo da un esempio, o meglio, da un problema.

    Problema 1 – Dice Giuseppe: una sola delle due affermazioni che mi accingo a fare è vera, mentre l’altra è falsa:

    1. Ho in mano due carte. Una di queste è un Re, oppure un Asso, oppure un Re e un Asso.
    2. Ho in mano due carte. Una di queste è una regina, oppure un Asso, oppure una Regina e un Asso.

    Quindi, o è vera la prima affermazione (e falsa la seconda) oppure è vera la seconda (e falsa la prima).

    Stando così le cose, è più probabile che Giuseppe abbia in mano un Re che un Asso o viceversa?

    Ipotizzando vera la prima affermazione e falsa la seconda, e utilizzando i connettivi logici, avremmo di conseguenza:

    Una di queste tre giocate: Re, Asso oppure Re+Asso è in mano a Giuseppe. Ciò perché è vera la prima affermazione;

    Nessuna di queste tre giocate: Regina, Asso oppure Regina+Asso è in mano al giocatore. Ciò perché è falsa la seconda affermazione, come conseguenza del fatto che la prima è supposta vera.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Facciamo il punto della situazione

    Quando una affermazione è falsa, il modo di ragionare comune in genere non la prende in considerazione.

    Considera solo l’affermazione definita vera.

    Nel nostro caso entrambe le affermazioni sono di tipo dicotomico: se è falsa è tuttavia vero l’incontrario.
    Ecco pertanto che l’affermazione certamente falsa, di tipo dicotomico, ci restituisce in ogni caso un’informazione che in genere non può essere trascurata e che può rivelarsi importante.

    Quando la prima affermazione è vera e la seconda è falsa, le giocate possibili sono:

    1. avere in mano un Re oppure avere in mano un Asso oppure avere in mano un Re + un Asso;
    1. non avere in mano una Regina, nè avere in mano un Asso, e nè avere in mano una Regina + un Asso.

    Quando una affermazione del tipo A oppure B oppure C, come nel caso delle due affermazioni prima dette, è definita falsa, allora A B e C possono verificarsi, come esplicitato al secondo punto riferito alla affermazione falsa.
    Quando la stessa affermazione – oppure una simile – è definita vera, allora o A o B o C possono verificarsi – vedi primo punto – a meno che una o più delle tre, sia anche parte della condizione determinata dalla affermazione falsa, e pertanto va esclusa dalle possibilità espresse dalla affermazione vera.

    Ciò che rende vera una affermazione del tipo o A o B o C come quelle che stiamo attenzionando, è il verificarsi di una qualsiasi delle tre ipotesi denominate A, B e C.

    Ciò che rende falsa una affermazione del tipo o A o B o C, è il non verificarsi di alcuna delle tre condizioni[1].

    Torniamo al nostro caso

    Poiché l’affermazione falsa esclude la possibilità che ci possa essere un Asso – da solo oppure in compagnia di altra carta – dei tre scenari ipotizzati dalla affermazione vera devono essere esclusi quelli che prevedono la presenza di un Asso – pertanto il secondo e il terzo.
    L’unico scenario possibile rimane pertanto il Re.

    Quando la prima affermazione è vera e la seconda è falsa, l’unica carta possibile in mano a Giuseppe è il Re.

    Come facilmente intuibile, tanto che non ritengo opportuno proporre la spiegazione, lo stesso ragionamento vale quando ad essere falsa è la prima affermazione e ad essere vera la seconda.
    In questo caso l’unica giocata possibile è la Regina.
    In entrambe le possibilità – vera la prima e falsa la seconda oppure falsa la prima e vera la seconda – l’Asso non è mai una giocata possibile, sia da solo che in coppia con altra carta.

    Secondo problema

    Dice Giuseppe: una sola delle due affermazioni che mi accingo a fare è vera, mentre l’altra è falsa:

    1. Ho in mano due carte. Se una delle due è un Fante, allora l’altra è una Regina.
    2. Ho in mano due carte. Se una delle due è un Dieci, allora l’altra è una Regina.

    Quindi, o è vera la prima affermazione (e falsa la seconda) oppure è vera la seconda (e falsa la prima). Stando così le cose, è più probabile che Giuseppe abbia in mano una Regina che un Fante o viceversa?

    Ipotizzando vera la prima e falsa la seconda, avremmo:

    Se c’è un Fante in mano, allora c’è una Regina in mano.

    Se c’è un dieci in mano, allora NON c’è una regina in mano.

    Negare il conseguente è l’unico modo per falsificare una proposizione del tipo se P allora Q.

    Se P allora Q falsificata diventa se P allora non Q, che è una condizione che deve essere necessariamente presente!

    Ma prima di proseguire diciamo alcune cose sulle proposizioni del tipo se P allora Q.

    Nella logica proposizionale, una proposizione del tipo se P allora Q è la prima premessa di una particolare forma di sillogismo chiamata modus ponens.

    Questo sillogismo è formato da due premesse e una conclusione.
    La prima premessa è per l’appunto se P allora Q.
    La seconda premessa stabilisce se P è vera oppure è falsa.
    La conclusione è la logica deduzione, considerando le due premesse.

    Proviamo a fare un esempio utilizzando la prima asserzione.

    Se c’è un Fante in mano, allora c’è una Regina in mano (prima premessa)
    C’è un Fante nella mano (seconda premessa)
    C’è anche una Regina nella mano (conclusione).

    Qualora avessi affermato, come seconda premessa, che non c’è un Fante nella mano, la conclusione sarebbe stata:

    nulla possiamo dire circa la Regina, che potrebbe esserci ma potrebbe anche non esserci.

    Perché? Proviamo a fare un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni.
    Aldo e Giovanni sono due amici inseparabili.
    Praticamente Aldo non fa un passo fuori casa senza essere accompagnato da Giovanni.
    Non si può dire lo stesso di Giovanni.
    A volte Giovanni si accompagna a Giacomo.

    Pertanto: Se vedi in giro Aldo, puoi star certo che c’è anche Giovanni.

    Se Aldo allora Giovanni è la prima premessa del nostro sillogismo.

    La seconda premessa può essere della forma in giro c’è Aldo oppure in giro non c’è Aldo.

    Nel primo caso se in giro c’è Aldo, siamo certi che in giro c’è anche Giovanni (la logica conclusione del nostro sillogismo).

    Nel secondo caso, se in giro non c’è Aldo, nulla possiamo dire di Giovanni, che potrebbe essere uscito con Aldo oppure che potrebbe essere uscito con Giacomo.

    La logica conclusione data la seconda premessa  non c’è Aldo è che nulla possiamo affermare con certezza.

    Le combinazioni possibili del problema numero 2 sarebbero pertanto:

    1. Fante + Regina in relazione alla prima;
    2. Regina in relazione alla prima;
    3. Dieci + no Regina (Dieci senza Regina) in relazione alla seconda;
    4. no Regina in relazione alla seconda

    Ma una più attenta analisi ci suggerisce che 2. non è possibile in quanto contraddirebbe 4.
    Anche 1. contraddirebbe 4. e pertanto l’unica possibile rimane 3.

    Quando ad essere vera è la prima, l’unica mano possibile è Dieci.

    E quando ad essere vera è la seconda?

    Se Giuseppe ha un Fante in mano, allora NON ha una regina in mano.

    Se Giuseppe ha un Dieci in mano, allora ha una Regina in mano.

    Le combinazioni possibili sarebbero pertanto:

    1. Fante + no Regina (Fante senza Regina) in relazione alla prima;
    2. no Regina in relazione alla prima;
    3. Dieci + Regina in relazione alla seconda;
    4. Regina in relazione alla seconda

    Ma una più attenta analisi ci suggerisce che 4. non è possibile in quanto contraddirebbe 2.
    Anche 3. contraddirebbe 2. e pertanto l’unica possibile rimane 1.

    Quando ad essere vera è la seconda, l’unica mano possibile è Fante.

    Nella mano pertanto, prescindendo da quale asserzione sia vera, non ci sarà mai Regina.

    [1] Un esempio renderà tutto più chiaro. Se io dico che seduti al cinema ci sono o Aldo o Giovanni o Giacomo, e poi sostengo di avere affermato il falso, l’interlocutore si aspetta che nessuno dei tre sia seduto al cinema. Se solo uno dei tre, supponiamo Aldo, è seduto al cinema, allora ho affermato il falso quando sostenevo di avere affermato il falso. Di fatto avevo affermato il vero. La locuzione o…o…o può essere sostituita dalla locuzione almeno uno di questiIn logica, almeno uno di questi si falsifica con nessuno di questi.

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  • La teoria dialettico comportamentale

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    La teoria dialettico comportamentale

    Le basi teoriche dell’approccio DBT

    di Emanuele Fazio

    Che cos’è la teoria dialettico comportamentale

    La Teoria Dialettico Comportamentale è stata sviluppata dalla psicologa e docente universitaria Marsha Linehan.
    Si tratta di un approccio teorico e metodologico che fa utilizzo di teorie e metodi della terapia del comportamento, integrati con paradigmi presi in prestito dalla filosofia, in particolare la dialettica.

    Le origini

    La spinta motivazionale a implementare tale metodo trae le origini dall’esperienza personale di Marsha, fatta durante il passaggio dall’adolescenza alla prima età adulta.
    Pertanto, la teoria dialettico comportamentale fu inizialmente sperimentata su persone con ideazione suicidaria cronica e comportamenti autolesionisti, diventando nel breve volgere di qualche anno il trattamento più efficace con questo tipo di popolazione clinica, generalmente associata al disturbo borderline della personalità.

    Lo stato dell’arte

    Ad oggi, la teoria dialettico comportamentale si è rivelata efficace anche con altre popolazioni cliniche, come le persone affette da disturbi del comportamento alimentare, dipendenze da sostanze e/o comportamenti, disturbi d’ansia e dell’umore, ed altri ancora.
    Inoltre, forme brevi e mirate della terapia dialettico comportamentale, sono utilizzate per migliorare la qualità della vita a persone che non presentano disagio psicologico ma che partendo da una situazione di sostanziale benessere psicologico tendono ad un miglioramento delle proprie skill e all’espressione del loro massimo potenziale.

    Il trattamento DBT nella teoria dialettico comportamentale

    Il trattamento DBT ha avuto molto seguito sia nella comunità scientifica che in quella professionale, non solo per la sua efficacia, dimostrata scientificamente al di là di ogni ragionevole dubbio, ma per l’intrigante commistione di elementi generalmente poco associati tra di loro nella ricerca e nella pratica clinica.
    Tali elementi sono: la biologia, l’ecologia, la spiritualità e la scienza del comportamento (o analisi del comportamento).
    Ulteriore elemento che connota nelle fondamenta la teoria dialettico comportamentale è la dialettica, più precisamente la sintesi tra due istanze contrapposte: modificare il comportamento di una persona senza che essa interpreti tale necessità come un giudizio negativo sul suo modo abituale di essere al mondo.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Le modalità di intervento

    La terapia dialettico comportamentale più che una terapia (non necessariamente una psicoterapia, ma anche e soprattutto terapia di sostegno psicologico, di abilitazione/riabilitazione alle skill socio-relazionali, di prevenzione primaria, secondaria e terziaria dal disagio psicologico) è un programma terapeutico.
    Si articola, nel trattamento dei casi che necessitano di un maggiore impegno terapeutico, in quattro modalità di intervento.
    La prima è la relazione d’aiuto individuale, dove lo psicologo agisce sulla singola persona per abilitare/riabilitare attraverso tecniche di psicoeducazione e di apprendimento operante, le skill socio-relazionali.
    La seconda è come la prima, ma vede protagonista il gruppo, e disponendo inoltre di un campo di gioco protetto dove è possibile e auspicabile che gli apprendimenti individuali siano messi in pratica, durante la relazione con gli altri membri del gruppo.
    La terza è detta coaching telefonico, dove la persona, in situazioni di particolare stress o disagio emotivo, contatta il terapeuta al fine di ricevere adeguate indicazioni e suggerimenti su come fronteggiare, utilizzando quando già appreso, la situazione nella quale si sta trovando in quel momento, o di cui ha fatto esperienza poco prima.
    La quarta attiene il terapeuta, che si incontra regolarmente con altri terapeuti DBT, per un confronto costruttivo e dinamico su quanto succede durante le tre modalità prima dette.

    L’obiettivo della DBT.

    L’obiettivo della terapia dialettico comportamentale è duplice:

    Motivare al cambiamento/miglioramento.

    Disapprendere un comportamento o una modalità di pensiero che ci ha accompagnato nel corso della nostra esistenza, per quanto foriero di disagio, può generare sentimenti negativi, come senso di colpa, vergogna, scarsa stima di sé, rimpianto o più semplicemente interpretare questa richiesta (dal terapeuta a noi e/o da noi a noi stessi) come un giudizio negativo.
    A seconda della struttura di personalità di ogni singola persona, tali richieste possono sfociare in frustrazione e poi rabbia, verso sé stessi e/o verso il terapeuta e/o gli altri membri del gruppo.

    Migliorare o apprendere nuove skill socio-relazionali.

    Il disagio psicologico, in particolare quando interagiamo con gli altri, deriva da una mancata conoscenza di particolari skill oppure da una insufficiente abilità ad applicare quelle che si conoscono.
    La DBT classifica le skill in quattro categorie, in base alle finalità per cui sono implementate, e cioè:

    • regolare le emozioni (o evitare la sregolazione emotiva);
    • vivere pienamente l’esperienza che si sta facendo in quel preciso momento (skill di mindfulness);
    • avere relazioni interpersonali reciprocamente appaganti e soddisfacenti;
    • gestire le situazioni stressanti.

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  • Melanie Klein

    melanie klein

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    Melanie Klein

    Precorritrice della teoria delle relazioni oggettuali

    di Emanuele Fazio

    Melanie Klein

    Melanie Klein è stata la precorritrice o della teoria delle relazioni oggettuali[1].

    Melanie Klein ha suggerito che l’ansia esistenziale preverbale nell’infanzia attiverebbe la formazione dell’inconscio, che ha come risultato la scissione inconscia del mondo in idealizzazioni buone e cattive.
    Nella sua teoria, il modo in cui il bambino risolve tale scissione dipende dalla costituzione del bambino (oggi diremmo la sua natura, legata ai geni) e dalle sue esperienze conoscitive ed emotive.
    La qualità delle esperienze può caratterizzare la presenza, l’assenza e/o il tipo di tolleranza allo stress che una persona sperimenta più avanti nella vita.

    Emanuele Fazio
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    Io e Super-Io

    La relazione primaria tra bambino e caregiver stimola e determina la struttura dell’Io e del Super-Io.
    Come vedremo meglio nel prosieguo, la relazione è di fatto una rappresentazione[2] (oggetto-rappresentazione) della relazione tra due ulteriori rappresentazioni, o ulteriori oggetti interni: l’oggetto-bambino (oggetto-Sé) e l’oggetto-caregiver (oggetto-altro da Sé).

    Il gioco

    Melanie Klein operò attraverso il gioco, che considerava alla stregua delle libere associazioni freudiane utilizzate nella terapia con gli adulti.
    Ella riteneva infatti che le dinamiche del gioco esprimessero i conflitti del bambino.
    La Klein fu colpita dal fatto che le immagini interne degli oggetti erano molto più feroci e crudeli di quanto sembravano essere i genitori reali.
    Una rivelazione molto simile a quella che ebbe Freud e che lo traghettò dal trauma reale al trauma fantastico.

    Phantasy e destrudo

    Klein postulò che tale rappresentazione feroce e crudele della figura primaria fosse mediata e/o moderata da fantasie (in inglese phantasy) agite da energia destrudica (l’energia aggressiva e distruttiva postulata da Freud come l’energia che anima la pulsione di morte o Thanatos).
    Di fatto la rappresentazione delle figure primarie risente di entrambe le energie postulate dalla psicoanalisi classica, quindi libido e destrudo (o mortido).

    L’oggetto madre

    Il bambino di Melanie Klein non può ancora conoscere il mondo esterno, ma solo il mondo oggettuale interno – e le relazioni tra questi oggetti interni.
    La madre, ad esempio, è per il bambino una rappresentazione certamente influenzata da caratteristiche che sono proprie della madre ma è anche una rappresentazione mediata e moderata da stati mentali innati.
    Inoltre non esiste per il bambino l’oggetto interno madre, ma oggetti interni – anche svariati – che sono costruiti da un punto di vista rappresentazionale con l’influenza – a vario grado – dell’oggetto esterno madre, in alcuni casi con l’influenza di altri oggetti esterni e/o di altri oggetti interni.
    Tali rappresentazioni sono sempre colorate – con intensità variabili – da toni affettivi positivi, negativi o un misto di entrambi.
    Le rappresentazioni arrivano alla percezione del bambino anche in assenza dell’oggetto o degli oggetti esterni che hanno contribuito a crearli.

    Proiezione e introiezione

    Importante evidenziare come la costruzione delle rappresentazioni interne sia guidato da due meccanismi psichici fondamentali: la proiezione e la introiezione.
    Vediamo come funziona la mente di un bambino, secondo Melanie Klein.
    L’attività mentale della prima infanzia non è sostanzialmente dissimile da quella dell’età matura.
    Innanzitutto le due energie prima dette, libido e destrudo, dinamizzano le relazioni tra gli oggetti[3] interni.
    Le due energie sono innate, cioè non si formano durante la crescita.

    Gli oggetti interni

    Gli oggetti interni sono già presenti alla nascita, almeno quelli più importanti, e dotati di un contenuto che la Klein definisce phantastic.
    Da notare l’uso della ph al posto della f in quanto alla Klein premeva sottolineare la natura innata e pre-apprendimento di queste rappresentazioni.
    Un concetto analogo lo rinveniamo nella psicologia analitica di Jung e nella psicologia archetipica di Hillman.

    È solo gradualmente che alla ph si sostituisce la f, in quanto tali rappresentazioni sono progressivamente (ma mai del tutto) corrette dal dato di realtà.
    Inoltre è frequente, anche in età matura, che la componente ph riprenda il sopravvento sulla componente f, come nel caso della regressione alla posizione schizo-paranoide[4]. Vedremo meglio questo concetto nel prosieguo.

    Differenze con Freud

    A differenza di Freud, che vedeva lo sviluppo dell’Io come una faccenda puramente intrapsichica, il modello di Melanie Klein, che per questo motivo viene in parte accreditato ai modelli delle relazioni oggettuali, postula che lo sviluppo dell’Io e la graduale trasformazione degli oggetti interni da phantastici a fantastici – e annesse relazioni tra essi – è una faccenda tutt’altro che intrapsichica, ma interpersonale, cioè implica la relazione di qualità con il caregiver.

    Un’altra differenza con il pensiero freudiano è data dal fatto che mentre Freud postula che lo sviluppo psichico è di fatto uno sviluppo sessuale, che conduce la libido all’oggetto finale per il tramite di stazioni di posta che di volta in volta sono la bocca, l’ano, i genitali, la Klein postula che lo sviluppo psichico è anche lo sviluppo sessuale ma è soprattutto lo sviluppo relazionale, che conduce sia la libido che la destrudo ad alimentare opportunamente le relazioni interpersonali: nelle relazioni non conflittuali prevarrà la libido mentre nelle relazioni conflittuali confluirà la necessaria dose di destrudo.

    Modellizziamo il concetto

    In genere ogni relazione è dinamicizzata da un opportuno dosaggio di queste due energie. Possiamo modellizzare questo concetto con un continuum, ai cui opposti troviamo amore e morte o anche amore e desiderio di distruzione.
    All’interno del continuum troviamo una infinità di sentimenti, molti dei quali hanno ricevuto una definizione e un termine per essere verbalmente rappresentati.
    Il bambino di Melanie Klein, perlomeno nelle sue primissime fasi di vita, non è ancora in grado di distinguere gli oggetti/rappresentazioni oltre la dicotomia amore/odio.

    Le posizioni

    La Klein chiama posizioni[5] due organizzazioni della mente che emergono nella prima infanzia ma che regressivamente sono sempre presenti nella vita di un individuo: la posizione schizoparanoide e la posizione depressiva.

    La posizione schizoparanoide  

    Schizo- viene dal greco schizein, cioè scindere ed ha quindi la stessa radice di scissione[6], un termine che ci apprestiamo ad usare estensivamente.
    Nella formulazione kleiniana, la scissione è un meccanismo di difesa agito dall’Io per proteggersi dalla minaccia percepita di un coinvolgimento in un conflitto intrapsichico spesso speculare ad un conflitto interrelazionale.
    Il soggetto percepisce l’ansia segnale[7], che associa immediatamente ad una rappresentazione oggettuale.

    Come già anticipato, per il bambino l’oggetto o è buono o è cattivo. O lo si ama o lo si distrugge.
    Il bambino della Klein non è in grado ancora di apprezzare l’ambivalenza soggettuale e oggettuale, assieme ad un’altra importante essenza: la permanenza dell’oggetto[8].

    Quest’ultimo aspetto è davvero rilevante nella teoria kleiniana, poiché il bambino non può ancora attribuire la sua angoscia da fame[9] all’assenza della madre.
    Piuttosto associa tale sentimento primario alla presenza di un oggetto cattivo: il seno cattivo.
    Ecco quindi operare la scissione: l’oggetto madre è idealmente rappresentato da un oggetto buono (il seno buono) e da un distinto oggetto persecutorio e sadico (il seno cattivo).

    Ambivalenza soggettuale e oggettuale

    Per quanto attiene l’ambivalenza soggettuale e oggettuale, con la prima si intende la scoperta che il bambino fa che egli (l’oggetto-Sé) è in grado sia di amare che di odiare – più gli altri sentimenti che nel frattempo emergeranno – e che l’altro, come ad esempio il caregiver, (l’oggetto-altro da Sé) può ritrovarsi amato e odiato.
    Il dilemma che emerge prepotentemente e che accompagnerà il bambino anche nella sua fase adulta è: tutto ciò è affidato al caso? O è possibile l’intenzionalità?
    Rischio di odiare un oggetto che dovrei amare perché non sono in grado di riconoscerlo come degno di amore?
    Rischio di amare un oggetto che dovrei odiare perché non sono in grado di riconoscerlo come insegno di amore?

    La posizione depressiva

    La posizione depressiva evidenzierà la maturazione raggiunta dal bambino, in quanto sarà adesso in grado di attribuire sentimenti ambivalenti anche allo stesso oggetto/rappresentazione, senza quindi la necessità di ricorrere al meccanismo della scissione. Essa è contrassegnata dalla capacità del bambino di percepire la madre come un oggetto intero, che rende ragione delle esperienze sia buone sia cattive. Il conseguimento di questa posizione è inteso dalla Klein come il processo centrale e il compimento dello sviluppo del bambino.

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  • La teoria Aspettativa/Valore

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    La teoria Aspettativa/Valore

    Anche detta teoria motivazionale di Victor Vroom

    di Emanuele Fazio

    La teoria Aspettativa/Valore, anche detta teoria motivazionale di Victor Vroom

    Prima di affrontare la teoria aspettativa/valore, diciamo qualcosa sul concetto di motivazione.
    Secondo l’Associazione Psicologica Americana, la motivazione[1] è la spinta che determina movimento, mantenimento e regolazione del movimento e direzione verso l’ottenimento di uno o più obiettivi, che possono essere sia materiali (come ad esempio del cibo) che immateriali (come ad esempio il raggiungimento e/o il mantenimento di uno stato psicofisico di benessere).
    L’esperienza soggettiva dei comportamenti, pensieri e/o emozioni coinvolti nel processo motivazionale può essere cosciente, non cosciente oppure un mix di entrambe.
    Numerose teorie trattano l’argomento della motivazione mettendo l’accento su componenti diverse ed approfondendo aspetti diversi di questo complesso costrutto.

    Le teorie della motivazione

    Una prima classificazione potrebbe essere individuata differenziando tra teorie motivazionali del contenuto, come ad esempio la piramide dei bisogni di Abraham Maslow, che spiegano la motivazione in funzione dal soddisfacimento di bisogni primari (fisiologici o riconducibili ad essi) – e teorie motivazionali del processo, come ad esempio la teoria aspettativa/valore di Victor Vroom e la teoria dei tre bisogni di David McClelland, le quali, seppur non escludendo l’importanza del soddisfacimento dei bisogni primari, si propongono di spiegare le motivazioni alimentate da bisogni che emergono non solo da uno scompenso della omeostasi fisiologica dell’individuo, ma anche dallo scompenso della omeostasi psicologica, in particolare quella cognitiva, e ancora più specificatamente, dalla differenza tra credenze e aspettative precedenti ad uno o più eventi e credenze e aspettative conseguenti ad uno o più eventi. Un concetto molto simile a quello di probabilità condizionata.

    Abbiamo pertanto:

    • La teoria dei tre bisogni di David McClelland, che spiega come ci comportiamo in base al nostro bisogno di affiliazione, realizzazione e potere;
    • La teoria della piramide dei bisogni di Maslow, basata sul nostro desiderio di soddisfare i nostri bisogni psicofisiologici di base;
    • La teoria/aspettativa valore di Victor Vroom, di cui parleremo in questo articolo.
    Emanuele Fazio
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    La teoria aspettativa/valore nel dettaglio

    Vroom postula che la motivazione – la variabile dipendente – può essere rappresentata da un numero, il quale è il prodotto della moltiplicazione di tre fattori, le variabili indipendenti, anch’esse esprimibili con un numero. Questi tre fattori sono:

    1. Aspettativa (Expectancy), che corrisponde al grado di fiducia che il lavoratore ripone circa la validità dell’implicazione logica: se e solo se ho le skill necessarie e mi impegno nel compito, allora otterrò un’elevata performance.
      È l’essenza del lavoro ben fatto, a prescindere della buona ricompensa, che come vedremo, è invece l’essenza del concetto di strumentalità.
      Vroom chiama l’aspettativa anche risultato di primo livello.
      È un valore determinato probabilisticamente ed è espresso da un numero con due decimali compreso tra zero e 1;
    2. Strumentalità (Instrumentality), che corrisponde al grado di fiducia che il lavoratore ripone circa la validità dell’implicazione logica: se e solo se otterrò un’elevata performance allora otterrò un’adeguata e soddisfacente ricompensa – non necessariamente economica o solo economica.
      Per Vroom si tratta del risultato di secondo livello.
      È un valore determinato probabilisticamente ed è espresso da un numero con due decimali compreso tra zero e 1;
    3. Valenza (Valence), cioè il valore percepito e attribuito dal lavoratore alla ricompensa.
      La ricompensa include anche la soddisfazione lavorativa, cioè la misura in cui le persone si sentono realizzate durante e al termine del compito eseguito e rispetto al quale sviluppano emozioni positive o negative in caso di insuccesso.
      È un concetto molto simile al rapporto costi/benefici: più precisamente è il valore attribuito alla ricompensa al netto dei costi sostenuti.
    Un esempio renderà la teoria aspettativa/valore più chiara

    Un lavoratore chiamato a partecipare ad un progetto, sa che per ottenere una buona ricompensa, deve fare una buona performance.
    Lo crede fermamente (valore credenza = 1).
    Per il lavoratore fare una buona performance è importante, oltre che per il fattore remunerativo (0,98) e di soddisfazione lavorativa (0,90), anche ai fini di un possibile avanzamento di carriera (1).
    Quindi si pone il valore di Valenza pari a 0,98*0,90*1=0,88.
    L’incidenza del costo (in termini di fatica e stress) è pari a 0,15, e quindi 0,88*(beneficio 1- incidenza del costo 0,15) = 0,75.

    Il lavoratore stima di possedere tutte le skill (capacità e abilità) richieste (0,98), e inoltre è consapevole di essere molto coscienzioso e di potersi adeguatamente impegnare (valore impegno pari a 0,97).
    Pertanto il valore di Aspettativa è pari a 0,98*0,97 = 0,95.

    Tuttavia, il lavoratore crede che una buona raccomandazione aiuta ad ottenere un avanzamento di carriera più che una buona performance e che quindi, qualora vi fosse un raccomandato, la sua buona performance potrebbe non bastare a fargli conseguire parte del risultato (l’avanzamento di carriera).
    Le probabilità che il lavoratore stima circa la veridicità della sua credenza e della effettiva presenza di un raccomandato sono rispettivamente pari a 0,80 e 0,20.
    Ecco quindi che la Strumentalità è pari a 0,80*(1- 0,20) = 0,64.

    Pertanto la motivazione sarà pari a Aspettativa 0,95 * Strumentalità 0,64 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,46

    Inoltre, il lavoratore è già impegnato in un altro progetto, e pertanto non è più sicuro di poter destinare risorse a sufficienza al nuovo progetto.
    Di conseguenza, il valore impegno scende da 0,97 a 0,50 e quindi il valore Aspettativa scende a 0,49, facendo crollare la motivazione a 0,24 

    Aspettativa 0,49 * Strumentalità 0,64 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,24

    Ma accadono alcune cose…

    Intanto, dopo un colloquio con il dirigente, il lavoratore apprende non solo che al progetto non parteciperanno raccomandati, ma che il management ha espressamente posto la condizione che se il progetto andrà a buon fine, il lavoratore otterrà la promozione.
    Il lavoratore farà quindi il seguente ragionamento: la promozione dipende esclusivamente dalla mia performance e non da fattori esterni (1) e ho la massima fiducia che quanto riferitomi dal dirigente sia vero (0,99).

    Le probabilità che il lavoratore stima circa la veridicità della sua credenza e della effettiva presenza di un raccomandato diventano 1 (da 0,80) e 0 (da 0,20). La strumentalità complessiva è pari a 1*(1-0) = 1

    Adesso abbiamo 

    Aspettativa 0,49 * Strumentalità 1 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,37

    Inoltre il lavoratore chiede e ottiene dal dirigente di non essere più impegnato nell’ altro progetto e di potersi dedicare esclusivamente nel progetto in partenza.
    L’impegno risale quindi da 0,5 a 0,97 e pertanto l’aspettativa risale a 0,95.
    Adesso abbiamo 

    Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,75 = Motivazione 0,71

    Inoltre il dirigente gli assegna per tutta la durata del progetto un alloggio a spese dell’azienda, per evitare lo stress di dover affrontare giornalmente due ore complessive di spostamento in automobile.
    L’incidenza del costo sulla valenza sarà pertanto pari a 0 e i benefici pari a 1 e pertanto il nuovo valore di valenza sarà 0,88*(beneficio 1- incidenza del costo 0) = 0,88.

    Adesso abbiamo 

    Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,88 = Motivazione 0,84

    La dinamica degli eventi recenti ha inoltre aumentato il fattore soddisfazione lavorativa, che da 0,90 passa a 0,98, facendo ulteriormente aumentare la Valenza (0,98*0,98 = 0,96)

    Adesso abbiamo 

    Aspettativa 0,95 * Strumentalità 1 * Valenza 0,96 = Motivazione 0,91

     

    [1] Motivazione deriva dal latino ”motivus”, sostantivazione da ”motus,” participio passato di ”movere” – in italiano muovere.

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    Con teoria della mente (anche detta TOM) si definisce quella capacità di intendere e di volere, e pertanto tenere in considerazione quando si compie un comportamento (agito e/o pensato), il fatto che gli altri hanno proprie intenzioni, desideri, credenze, percezioni, emozioni e che possono essere in tutto o in parte sia differenti che uguali alle nostre.
    Altra importante capacità, che caratterizza la teoria della mente, è quella di tenere in considerazione costante e proficua il fatto che intenzioni, desideri, credenze etc. influenzano sensibilmente i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri agiti, siano esse nostre o degli altri.
    A sua volta, i pensieri, le emozioni e gli agiti nostri e degli altri influenzano quanto prima detto.
    Si tratta pertanto di una dinamica causativa di tipo circolare.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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