Autore: Emanuele Fazio

  • Il Fenomeno del “Quiet Quitting” e Come il DBT Skills Training Può Aiutarti a Trovare un Equilibrio

    Il Fenomeno del “Quiet Quitting” e Come il DBT Skills Training Può Aiutarti a Trovare un Equilibrio

    Scopri come affrontare il “Quiet Quitting”

    Il Fenomeno del “Quiet Quitting” e Come il DBT Skills Training Può Aiutarti a Trovare un Equilibrio

    di Emanuele Fazio

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    Persona che riflette sul proprio equilibrio lavorativo, simbolo del "quiet quitting" e gestione dello stress

    Negli ultimi anni, il fenomeno del “quiet quitting” ha ottenuto un’attenzione crescente. Questo approccio di “distacco silenzioso” dal lavoro può sembrare una soluzione temporanea allo stress e al burnout, ma rischia di alimentare l’insoddisfazione a lungo termine. Scopri come il DBT Skills Training può offrirti competenze utili per gestire questa situazione in modo più equilibrato e costruttivo.

    Negli ultimi anni, il termine “quiet quitting” ha guadagnato popolarità, diventando una delle frasi più discusse nel mondo del lavoro. Ma cosa significa esattamente? “Quiet quitting” non si riferisce a dimettersi dal proprio lavoro, bensì ad adottare un approccio distaccato nei confronti delle proprie mansioni. In pratica, significa fare il minimo indispensabile per adempiere ai propri doveri lavorativi, senza investire energie aggiuntive o sforzi emotivi extra. Questo atteggiamento nasce spesso come reazione allo stress, al burnout o a un mancato riconoscimento del proprio impegno.

    Cos’è il “Quiet Quitting”?

    Il “quiet quitting” può essere interpretato come una forma di autodifesa contro l’eccessiva pressione lavorativa. Adam Grant, noto psicologo e autore di Give and Take, afferma che “le persone smettono di impegnarsi quando sentono di non essere apprezzate” – un concetto che si collega strettamente a questo fenomeno. Il “quiet quitting” è un segnale che l’individuo non sta più trovando soddisfazione o significato nel proprio lavoro e preferisce limitarsi al minimo richiesto.

    Da un lato, può sembrare una soluzione efficace per proteggere la propria salute mentale; dall’altro, rischia di alimentare un senso di insoddisfazione profonda, generando frustrazione sia per il lavoratore che per l’azienda.

    Come Praticare il “Quiet Quitting”

    Se senti il bisogno di adottare un approccio più distaccato nel lavoro per proteggere il tuo benessere mentale, ecco alcuni suggerimenti per praticare il “quiet quitting” in modo sano:

    1. Stabilisci confini chiari: Impara a dire di no a incarichi extra che non rientrano nel tuo ruolo.
    2. Evita di controllare e-mail o rispondere a messaggi fuori dall’orario lavorativo: Difendi il tuo tempo personale.
    3. Non fare più del dovuto: Concentrati sulle tue mansioni principali e smetti di investire energie in attività non necessarie.

    Il “quiet quitting”, tuttavia, può avere delle implicazioni a lungo termine per il tuo equilibrio emotivo e la tua autostima. È qui che il DBT Skills Training può fornire strumenti preziosi per affrontare la situazione in modo più costruttivo.

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    Scopri il DBT Skills Training: gestisci lo stress e migliora le tue relazioni personali.

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    Sono Emanuele Fazio, Psicologo e DBT Skills Trainer a Roma Nord, specializzato nel supporto per la gestione dello stress e delle emozioni intense. Offro percorsi personalizzati per migliorare il benessere psicofisico e favorire una vita più serena e equilibrata. Attraverso il DBT Skills Training, imparerai strategie pratiche per ritrovare l’equilibrio emotivo e migliorare la qualità delle tue relazioni.

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    Il DBT Skills Training come Strumento di Supporto

    Il DBT Skills Training, sviluppato per aiutare chi soffre di disturbi emotivi intensi, può rivelarsi incredibilmente utile anche per chi sperimenta stress lavorativo o insoddisfazione professionale. Le quattro aree chiave del training– mindfulness, regolazione emotiva, efficacia interpersonale e tolleranza della sofferenza – offrono competenze pratiche per navigare momenti difficili e ritrovare un equilibrio.

    1. Mindfulness: Riconoscere e Accettare la Realtà

    La mindfulness è l’abilità di vivere il presente con consapevolezza e accettazione, senza giudicare ciò che stai provando. Nel contesto lavorativo, praticare la mindfulness può aiutarti a distinguere meglio tra ciò che è sotto il tuo controllo e ciò che non lo è. Anziché reagire con rabbia o frustrazione quando le cose non vanno come vorresti, puoi imparare ad accettare la situazione così com’è, mantenendo una prospettiva equilibrata.

    Ad esempio, se ti trovi in un ambiente lavorativo tossico, la mindfulness ti permette di osservare le tue emozioni senza esserne sopraffatto, aiutandoti a decidere come rispondere in modo strategico piuttosto che impulsivo.

    2. Regolazione Emotiva: Gestire lo Stress e il Burnout

    Uno dei motivi principali che spinge le persone verso il “quiet quitting” è il burnout emotivo. La regolazione emotiva è un aspetto centrale del DBT Skills Training e ti insegna a identificare, comprendere e gestire le emozioni negative. Tecniche come l’auto-monitoraggio emotivo o il riconoscimento degli schemi possono aiutarti a prevenire l’accumulo di stress e frustrazione.

    Ad esempio, imparare a bilanciare le emozioni quando ricevi critiche ingiuste o ti senti sopraffatto ti permette di reagire in modo più equilibrato, evitando l’eccessivo distacco o il totale disimpegno.

    3. Efficacia Interpersonale: Comunicare in Modo Assertivo

    Un’altra abilità fondamentale del DBT è l’efficacia interpersonale, che ti aiuta a esprimere i tuoi bisogni e desideri in modo assertivo, rispettando sia te stesso che gli altri. Nel contesto del “quiet quitting”, potresti sentirti intrappolato in un ambiente lavorativo in cui non puoi dire apertamente come ti senti. L’efficacia interpersonale ti insegna a negoziare i confini in modo chiaro e rispettoso.

    Ad esempio, puoi imparare a chiedere una riduzione del carico di lavoro o a esprimere il tuo malessere al tuo supervisore senza timore di ritorsioni. In questo modo, non ti senti costretto a “spegnerti” emotivamente o a limitare il tuo impegno solo per proteggerti dallo stress.

    4. Tolleranza allo Stress: Affrontare Momenti Difficili Senza Disperarsi

    Infine, la tolleranza allo stress ti aiuta a resistere a situazioni lavorative stressanti senza reagire impulsivamente o prendere decisioni drastiche. Questa abilità è particolarmente utile quando ti trovi in una fase di transizione e non puoi permetterti di abbandonare completamente il tuo lavoro, ma senti comunque il bisogno di ridurre il tuo coinvolgimento per proteggere la tua salute mentale.

    Tecniche come il “radical acceptance” (accettazione radicale) o l’uso di metodi di distrazione positiva possono aiutarti a tollerare i momenti difficili senza rinunciare completamente al tuo ruolo professionale.

    Il “quiet quitting” può sembrare una risposta naturale alle pressioni lavorative e al burnout, ma può portare a una sensazione di insoddisfazione a lungo termine. Invece di distaccarti completamente dal lavoro, potresti considerare l’uso del DBT Skills Training per gestire lo stress e le emozioni difficili in modo più costruttivo. Le abilità come la mindfulness, la regolazione emotiva, l’efficacia interpersonale e la tolleranza della sofferenza ti offrono strumenti pratici per mantenere l’equilibrio tra lavoro e vita personale, senza compromettere il tuo benessere.

    Se senti di aver bisogno di supporto per affrontare queste sfide, il DBT Skills Training potrebbe essere la chiave per trovare un nuovo equilibrio.

    Il “quiet quitting” è una risposta comune allo stress e all’insoddisfazione lavorativa, ma può portare a disimpegno e frustrazione. Le abilità del DBT Skills Training – mindfulness, regolazione emotiva, efficacia interpersonale e tolleranza della sofferenza – offrono alternative costruttive per affrontare queste difficoltà, mantenendo un equilibrio tra il lavoro e la propria serenità.

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  • mindfulness e intenzionalità: differenza tra automatismo e scelta consapevole

    mindfulness e intenzionalità: differenza tra automatismo e scelta consapevole

    Comprendere l’intenzionalità nella pratica mindfulness

    La mindfulness e l’intenzionalità: una riflessione su scelta consapevole e automatismi

    di Emanuele Fazio

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    Persona immersa nella meditazione che simboleggia l'intenzionalità nella pratica mindfulness

    L’articolo esplora la connessione tra mindfulness e intenzionalità, analizzando come la consapevolezza possa guidare le nostre azioni in contrasto agli automatismi. Approfondiamo il significato filosofico dell’intenzionalità, dai fondamenti della fenomenologia di Husserl alle distinzioni con la fisica classica, e scopriamo come la capacità di scegliere consapevolmente ci distingua dalla materia inanimata, arricchendo l’esperienza umana.

    La mindfulness e l’intenzionalità

    La mindfulness è costituita da una serie di abilità praticate con intenzionalità. Ma cosa si intende davvero per intenzionalità? Questo concetto, fondamentale in filosofia, descrive la capacità della mente di essere orientata verso qualcosa, sia esso un oggetto reale o immaginario. Ogni pensiero, desiderio o percezione ha un oggetto: se pensi a un amico, il tuo pensiero è intenzionalmente rivolto verso di lui.

    L’intenzionalità, introdotta dal filosofo Franz Brentano nel XIX secolo e successivamente approfondita da Edmund Husserl nella fenomenologia, sottolinea come la nostra coscienza non sia mai passiva. È sempre attivamente orientata verso qualcosa, influenzando il nostro modo di percepire e interagire con il mondo.

    Le opere di Husserl sull’intenzionalità

    Il concetto di intenzionalità è stato approfondito da Husserl principalmente in due delle sue opere fondamentali:

    1. “Ricerche logiche” (1900-1901): In questo testo, Husserl affronta in maniera sistematica il tema dell’intenzionalità, che diventa uno dei pilastri della sua fenomenologia. Nella seconda ricerca, intitolata “La teoria dell’intuizione e il concetto di intenzionalità”, analizza come ogni atto di coscienza sia rivolto a un oggetto, reale o immaginario.
    2. “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica” (1913): In questo lavoro, Husserl espande la sua teoria dell’intenzionalità, proponendo una descrizione più dettagliata della relazione tra la coscienza e i suoi oggetti. Egli distingue i modi in cui gli oggetti vengono dati nella coscienza e il ruolo dell’intenzionalità nel costituire il mondo dell’esperienza.

    Questi testi sono essenziali per comprendere l’approfondimento di Husserl sul concetto di intenzionalità, uno dei fondamenti della sua fenomenologia.

    Differenza tra fisica e biofisica nell’intenzionalità

    L’intenzionalità distingue il comportamento umano da quello della materia inanimata, che, pur mostrando “movimento”, non agisce con una volontà propria. Per comprendere meglio questa distinzione, possiamo fare un confronto con la fisica classica. La terra orbita attorno al sole non per sua volontà, ma perché segue la legge della gravitazione universale di Isaac Newton, una legge che afferma che due corpi dotati di massa si attraggono con una forza proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.

    La Terra si muove in conformità a questa legge, senza possibilità di scelta o consapevolezza, in una sorta di danza cosmica predeterminata.

    Comportamento umano: tra intenzionalità e scelta consapevole

    Consideriamo un esempio quotidiano: stiamo camminando in un parco e cominciamo a girare attorno a una panchina dove è seduta una persona che ci attrae. Questo movimento, apparentemente simile a quello della Terra attorno al sole, è in realtà molto diverso: non è dettato da una legge della fisica meccanica, ma da un’intenzione mentale precisa. Il nostro desiderio e i nostri pensieri sono rivolti verso quella persona, e il corpo si adegua di conseguenza.

    In questo caso, l’intenzionalità non è solo il frutto di un impulso biofisico; è la manifestazione di una scelta consapevole. Il nostro desiderio di avvicinarci a qualcuno è mediato e moderato da pensieri e sentimenti. Questa capacità di scegliere ci distingue dalla materia inanimata e dal determinismo puro delle leggi fisiche.

    La differenza tra leggi fisiche e comportamento umano

    Mentre la Terra non può resistere alle forze che la governano, noi esseri umani possiamo opporci ai nostri impulsi. Possiamo scegliere, nonostante l’attrazione che proviamo, di non avvicinarci alla persona desiderata, magari per timidezza o insicurezza. Questa capacità di scegliere e resistere agli impulsi è ciò che rende unico il comportamento umano, una possibilità che la materia inanimata non ha.

    L’intenzionalità non è una semplice reazione automatica. Il nostro comportamento è spesso influenzato da motivazioni profonde, come l’amore, la paura o il desiderio di relazione. Ad esempio, nel caso dell’uso dei social media, tale relazione può essere mediata dalla rappresentazione cognitiva dell’oggetto, anche in assenza di percezioni sensoriali dirette.

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    Esempi di intenzionalità nel cinema

    Un modo interessante per comprendere la distinzione tra intenzionalità e comportamenti automatici è attraverso il cinema. Prendiamo ad esempio il film “Matrix” (1999), in cui Neo scopre di vivere in una simulazione e ha la capacità di scegliere se seguire o meno le regole del sistema. La frase di Morpheus, “sto cercando di liberare la tua mente, Neo. Ma posso solo mostrarti la porta. Sei tu che devi attraversarla,” rappresenta l’intenzionalità nella sua forma più pura.

    Un altro esempio è il film Her (2013), che esplora le emozioni e l’intenzionalità nel rapporto tra Theodore e un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale, Samantha. Le emozioni di Theodore sono autentiche perché intenzionalmente rivolte verso un altro essere, anche se questo “essere” è una macchina.

    Biochimica e intenzionalità: un equilibrio tra scienza e volontà

    Riprendendo l’esempio della passeggiata attorno alla panchina, possiamo affermare che il nostro comportamento, tradotto in termini biochimici, è influenzato da ormoni e processi biologici. Tuttavia, ridurre il nostro movimento a una semplice questione biochimica significherebbe ignorare l’essenza dell’intenzionalità. La mente umana non è solo una macchina biochimica che risponde a stimoli, ma un’entità capace di intenzioni complesse, come l’amore, la curiosità e il desiderio di relazione.

    Il legame tra intenzionalità, libertà e scelta

    Jean-Paul Sartre ha esplorato il tema della libertà e della scelta, entrambe espressioni fondamentali del concetto di intenzionalità. Nella sua opera “L’essere e il nulla” (1943), Sartre spiega come l’essere umano sia “condannato a essere libero”, ovvero non possa evitare la responsabilità delle proprie scelte. Possiamo decidere di camminare attorno a quella panchina per un desiderio romantico, oppure scegliere di non farlo, assumendoci pienamente la responsabilità di ogni azione.

    Influenza dei processi biochimici sul comportamento

    Questo non significa che, in certe circostanze, i nostri comportamenti non possano seguire leggi biofisiche e biochimiche. Sebbene l’intenzionalità e la libertà di scelta siano distintivi della mente umana, il nostro organismo è comunque governato da processi fisiologici e chimici che influenzano il nostro agire.

    Ad esempio, in situazioni di forte stress, il corpo rilascia cortisolo, spingendoci a reagire in modo automatico. In questi casi, la nostra capacità di scegliere liberamente è limitata e ci comportiamo più come una macchina, seppur biologica. Il linguaggio si spegne o riduce il suo ruolo di moderatore, mentre pensieri ed emozioni emergono senza controllo intenzionale, simili al determinismo delle leggi fisiche.

    Conflitto tra intenzionalità e automatismo

    Anche stati emotivi intensi, come la paura o la rabbia, possono attivare risposte automatiche, come il meccanismo di lotta o fuga, che ci prepara ad affrontare una minaccia senza bisogno di decisioni consapevoli. In questi casi, la linea di confine tra intenzionalità e automatismo si fa sottile: pur avendo un’origine biochimica, le emozioni si manifestano con una forza tale da spingerci ad agire senza riflettere.

    Questa apparente sospensione della libertà non implica che siamo completamente privi di intenzionalità o scelta. La volontà umana è influenzata e limitata dai meccanismi biofisici e biochimici che governano il nostro corpo. In questo spazio di conflitto tra ciò che è determinato e ciò che è scelto si manifesta la complessità del comportamento umano, un equilibrio tra leggi naturali e libertà di trascenderle attraverso l’intenzionalità.

    In conclusione, la mindfulness, come pratica di consapevolezza, valorizza l’intenzionalità umana, distinguendola da comportamenti automatici e reazioni biochimiche. Attraverso esempi filosofici, cinematografici e scientifici, l’articolo evidenzia come la capacità di scelta e la coscienza permettano all’individuo di agire in modo intenzionale, nonostante le influenze biofisiche e biochimiche. La distinzione tra automatismo e scelta è il cuore dell’intenzionalità, che rende l’esperienza umana unica e complessa.

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  • Life Skills: Abilità per Affrontare e Vincere le Sfide Quotidiane

    Life Skills: Abilità per Affrontare e Vincere le Sfide Quotidiane

    Introduzione alle Life Skills

    Life skills: competenze per il benessere e l’adattamento nella vita quotidiana

    di Emanuele Fazio

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    Life Skills, risorse personali per il benessere

    Le life skills, o abilità di vita, sono competenze essenziali per affrontare le sfide quotidiane, migliorando la gestione delle emozioni, la qualità delle relazioni e la capacità di prendere decisioni consapevoli. In questo articolo esploreremo le principali categorie di life skills — sociali, emotive e cognitive — e come queste possano essere sviluppate per promuovere una maggiore resilienza e benessere personale.

    Life Skills: Abilità per Affrontare e Vincere le Sfide Quotidiane

    Le life skills (abilità di vita) rappresentano un insieme di competenze che hanno lo scopo di aiutare l’individuo a vivere in modo più consapevole e responsabile. Queste abilità non solo contribuiscono al benessere psicologico, ma sono anche fondamentali per migliorare la qualità della vita, relazionale e personale.

    Definizione e Importanza delle Life Skills

    Le life skills sono un insieme di competenze psicosociali che permettono di affrontare con successo le sfide della vita quotidiana. Consentono di gestire le emozioni, di relazionarsi in modo efficace con gli altri e di prendere decisioni consapevoli. Queste competenze si sviluppano sia attraverso l’esperienza diretta sia attraverso percorsi educativi, fornendo strumenti per affrontare situazioni complesse con maggiore resilienza e sicurezza.

    Categorie delle Life Skills: Sociali, Emotive e Cognitive

    Abilità Sociali

    Le abilità sociali sono competenze che facilitano la costruzione e il mantenimento di relazioni sane. Sono fondamentali per instaurare connessioni significative, per comprendere i bisogni degli altri e per comunicare in modo chiaro e assertivo. Le principali abilità sociali includono la comunicazione efficace, l’empatia e la cooperazione.

    • Comunicazione efficace: Comunicare in modo chiaro e assertivo è cruciale per evitare incomprensioni e malintesi. Questa abilità consente di esprimere i propri bisogni senza aggredire o sminuire quelli degli altri.
    • Empatia: Essere in grado di mettersi nei panni degli altri favorisce la comprensione e l’accettazione delle diverse prospettive, creando legami più profondi e meno conflittuali.
    • Cooperazione: La capacità di lavorare insieme verso un obiettivo comune è alla base delle relazioni sane. La cooperazione richiede rispetto reciproco, capacità di ascolto e apertura al contributo altrui.

    Le abilità sociali sono quindi fondamentali per un sano sviluppo emotivo e relazionale, e rappresentano un valido aiuto per risolvere i conflitti in modo costruttivo e positivo.

    Abilità Emotive

    Le abilità emotive sono indispensabili per la gestione dello stress e delle emozioni, specialmente in situazioni di difficoltà o di conflitto. Queste competenze includono tecniche per riconoscere e regolare le emozioni intense, per mantenere l’equilibrio emotivo e per prevenire reazioni impulsive.

    • Gestione dello stress: In situazioni di alta tensione, la capacità di gestire lo stress è fondamentale. Tecniche come la respirazione profonda e la meditazione possono aiutare a rilassarsi, prevenendo reazioni eccessive.
    • Autoregolazione emotiva: Essere consapevoli delle proprie emozioni e saperle regolare rappresenta un passo essenziale per reagire in modo equilibrato. L’autoregolazione permette di evitare esplosioni emotive e di scegliere risposte più ponderate.

    Queste abilità promuovono un comportamento consapevole, aiutano a costruire relazioni positive e migliorano la capacità di adattamento agli eventi della vita.

    Abilità Cognitive

    Le abilità cognitive comprendono competenze come il pensiero critico, la risoluzione dei problemi e il processo decisionale. Queste abilità sono essenziali per affrontare le sfide con un approccio logico e ragionato, migliorando l’efficacia delle soluzioni e la qualità delle scelte prese.

    • Pensiero critico: Questa abilità permette di analizzare le situazioni in modo obiettivo e di individuare i pro e i contro delle diverse opzioni. Il pensiero critico è una risorsa preziosa per evitare errori dovuti a pregiudizi o opinioni non informate.
    • Risoluzione dei problemi: Sviluppare un metodo efficace per risolvere i problemi consente di affrontare le situazioni difficili senza ansia. La risoluzione dei problemi favorisce un approccio calmo e razionale, evitando reazioni impulsive.
    • Processo decisionale: Essere in grado di prendere decisioni ponderate è fondamentale per il benessere. Questa abilità implica valutare le possibili conseguenze delle scelte, considerando sia i vantaggi a breve termine che quelli a lungo termine.

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    L’importanza delle Life Skills per il Benessere Psicologico

    Le life skills non sono solo strumenti utili per affrontare problemi immediati, ma sono anche competenze che contribuiscono al benessere psicologico complessivo. Ad esempio, le abilità di gestione delle emozioni permettono di prevenire lo sviluppo di stress cronico e di problemi di salute mentale. Avere un buon controllo emotivo migliora la qualità della vita, aumenta la resilienza e favorisce un approccio positivo ai cambiamenti e alle difficoltà.

    Come Sviluppare e Potenziare le Life Skills

    Sviluppare le life skills richiede impegno e consapevolezza. Alcuni modi per rafforzare queste abilità includono la partecipazione a corsi di formazione specifici, la pratica di tecniche di mindfulness e la riflessione costante sulle proprie esperienze quotidiane. Le scuole, le organizzazioni e i centri di formazione offrono oggi numerosi programmi per il miglioramento delle life skills, accessibili a persone di tutte le età.

    Conclusione: Il Valore delle Life Skills nel Mondo Moderno

    In un mondo sempre più complesso e dinamico, le life skills rappresentano risorse preziose per migliorare la qualità della vita e il benessere psicologico. Queste competenze non solo permettono di affrontare con maggiore sicurezza le sfide quotidiane, ma favoriscono anche una crescita personale costante e un miglioramento delle relazioni interpersonali. Sviluppare e rafforzare le life skills è quindi un investimento prezioso per una vita più equilibrata e soddisfacente.

    In un mondo sempre più complesso e dinamico, le life skills rappresentano risorse preziose per migliorare la qualità della vita e il benessere psicologico. Sviluppare e rafforzare queste competenze permette di affrontare con maggiore sicurezza le sfide quotidiane, promuovendo una crescita personale costante e un miglioramento delle relazioni interpersonali.

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    Domande frequenti (FAQ)

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  • Che cos’è la teoria dialettico-comportamentale? La DBT spiegata nei suoi concetti fondamentali

    Che cos’è la teoria dialettico-comportamentale? La DBT spiegata nei suoi concetti fondamentali

    Approfondiamo la teoria dialettico-comportamentale

    Che cos’è la teoria dialettico-comportamentale?

    di Emanuele Fazio

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    Immagine rappresentativa della teoria dialettico-comportamentale

    La teoria dialettico-comportamentale, sviluppata da Marsha Linehan, è una terapia rivoluzionaria per i disturbi emotivi, come il disturbo borderline di personalità. In questo articolo esploriamo le radici di questa teoria, i suoi principi e le applicazioni pratiche che hanno portato speranza a molte persone.

    Introduzione alla teoria dialettico-comportamentale

    Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, la psicologa Marsha Linehan sviluppò una nuova metodologia terapeutica, la Dialectical Behavior Therapy (DBT). Questo metodo, concepito per aiutare persone con gravi difficoltà emotive, ha cambiato radicalmente il trattamento di pazienti che, fino ad allora, erano stati considerati “senza speranza”.


    La DBT unisce principi di accettazione e cambiamento per creare un equilibrio terapeutico, mirato a migliorare la gestione delle emozioni e la qualità delle relazioni interpersonali. Linehan, forte di una lunga esperienza personale e professionale, ha elaborato un approccio innovativo che continua a essere di grande rilevanza nel campo della psicologia e della psichiatria.

    L’esperienza personale di Marsha Linehan e l’origine della teoria

    Marsha Linehan non si avvicinò alla psicologia solo per motivi accademici. Da giovane, attraversò una fase di grave sofferenza psicologica, venendo ricoverata in un centro psichiatrico con una diagnosi iniziale di schizofrenia. Durante quel periodo, visse l’isolamento, l’incomprensione e il dolore di sentirsi considerata “un caso disperato”. Era un’epoca in cui la psichiatria non aveva ancora sviluppato un approccio realmente empatico e curativo per le persone con disturbi complessi.

    Nel tempo, Linehan trovò un equilibrio e intraprese una carriera accademica, diventando ricercatrice e docente presso il dipartimento di psichiatria e scienze comportamentali dell’Università di Washington. Grazie alla sua esperienza e al suo impegno, elaborò un metodo in grado di rispondere alle esigenze di coloro che, come lei, avevano vissuto un disagio psicologico profondo. La DBT fu concepita per aiutare soprattutto pazienti con una marcata difficoltà nel controllo delle proprie emozioni, che spesso sfociava in comportamenti impulsivi e dannosi per sé e per le relazioni interpersonali.

    La psichiatria negli anni ’70 e l’importanza della teoria dialettico-comportamentale

    Negli anni ’70, la psichiatria offriva poche risorse per i casi considerati estremi. Pazienti con forti difficoltà nel controllo emotivo e comportamentale venivano spesso trattati come casi irrecuperabili e sottoposti a terapie invasive come la lobotomia e l’elettroshock, con effetti devastanti. Qualcuno volò sul nido del cuculo, il romanzo di Ken Kesey pubblicato nel 1962 e reso celebre dal film di Miloš Forman con Jack Nicholson, offre una rappresentazione efficace delle dure condizioni e delle pratiche spesso disumanizzanti riservate ai pazienti. La storia rivela l’inefficacia e l’inumanità di alcuni approcci psichiatrici del tempo, mettendo in luce il bisogno urgente di metodi più rispettosi e efficaci.


    In un contesto simile, la DBT portò un cambiamento significativo. Marsha Linehan cercava un’alternativa che rispettasse la dignità del paziente e offrisse strumenti concreti per affrontare la sofferenza. Dimostrò che anche i casi complessi potevano migliorare senza ricorrere a pratiche dannose.

    Il disturbo borderline di personalità e il ruolo del metodo di Linehan

    Una delle condizioni più complesse trattate dal modello terapeutico di Linehan è il disturbo borderline di personalità (DBP). Questo disturbo è caratterizzato da difficoltà nel regolare le emozioni, impulsi autolesionisti, instabilità nelle relazioni e una profonda paura dell’abbandono. La sofferenza può spingere molte persone con DBP verso tentativi di suicidio o comportamenti di autolesionismo.


    È importante notare che il termine “disturbo” non sempre riflette appieno la complessità della patologia. Il termine inglese disorder racchiude una gamma più ampia di sfumature, indicando una condizione che ha ripercussioni significative sulla vita dell’individuo e sulle sue relazioni. Il metodo DBT si è dimostrato particolarmente utile per trattare questa complessa patologia, offrendo ai pazienti un metodo per migliorare il controllo emotivo e costruire relazioni più stabili.

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    Il cuore del metodo dialettico-comportamentale: accettazione e cambiamento

    Linehan, con una formazione in terapia cognitivo-comportamentale (CBT), iniziò a trattare i suoi pazienti secondo le tecniche standard del tempo, focalizzate sul cambiamento dei pensieri e dei comportamenti. Tuttavia, si accorse presto che molti pazienti reagivano male a questo approccio, interpretando l’insistenza sul cambiamento come una forma di colpevolizzazione. La percezione di dover modificare la propria identità e i propri modi di essere può risultare frustrante, specialmente in persone già vulnerabili.


    Linehan quindi decise di combinare l’accettazione dei pazienti con un percorso verso il cambiamento. Questo approccio dialettico, basato sull’equilibrio tra due concetti apparentemente opposti, costituì il fondamento della DBT. Accettare il paziente per ciò che è non significa rinunciare al miglioramento; al contrario, è proprio attraverso l’accettazione che si crea lo spazio necessario per un cambiamento autentico e sostenibile.

    I quattro pilastri della teoria

    • Mindfulness: La capacità di rimanere presenti e consapevoli del momento, senza giudicare. La mindfulness permette di osservare emozioni e pensieri senza esserne sopraffatti, facilitando una risposta più calma e ponderata.
    • Tolleranza allo stress: Rappresenta la capacità di affrontare il disagio emotivo senza ricorrere a comportamenti impulsivi o distruttivi. Gli individui imparano a gestire situazioni difficili sviluppando tecniche per sopportare il dolore psicologico.
    • Regolazione emotiva: Consiste nella capacità di identificare, comprendere e modulare le emozioni per evitare reazioni impulsive. Questa abilità aiuta a migliorare il benessere generale e le relazioni interpersonali.
    • Efficacia interpersonale: Si riferisce alla capacità di comunicare in modo assertivo, rispettare i propri bisogni e quelli degli altri, mantenendo relazioni sane e soddisfacenti.

    Applicazioni pratiche nella vita quotidiana

    Le tecniche apprese con la Dialectical Behavior Therapy non sono utili solo a chi soffre di disturbo borderline; possono essere benefiche per chiunque desideri migliorare la propria gestione emotiva e le relazioni. Ad esempio, una persona sopraffatta dallo stress può usare la mindfulness per concentrarsi sul respiro, calmare la mente e ritrovare lucidità.
    Un’altra applicazione è la tolleranza allo stress. Davanti a una delusione o frustrazione, imparare a riconoscere l’emozione e respirare profondamente aiuta a evitare reazioni esagerate e a trovare una risposta più equilibrata. La DBT offre strumenti concreti per sviluppare una maggiore resilienza e un migliore equilibrio emotivo.

    L’eredità della DBT e il futuro delle terapie basate sull’accettazione

    La Dialectical Behavior Therapy ha aperto nuove prospettive nella psicologia, grazie alla sua combinazione di accettazione e cambiamento. Questo approccio ha ispirato altre terapie, come la terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), che utilizza principi simili per affrontare problemi psicologici complessi. L’impatto del modello di Linehan è stato significativo e ha portato a una maggiore comprensione della sofferenza emotiva.
    Oggi, il lavoro di Linehan rappresenta una fonte di speranza per molte persone, offrendo strumenti pratici per affrontare le difficoltà emotive. Il metodo DBT dimostra che, anche nei momenti più difficili, è possibile trovare un equilibrio tra accettazione di sé e cambiamento, promuovendo una vita più piena e significativa.

    La teoria dialettico-comportamentale, sviluppata da Marsha Linehan, rappresenta un approccio rivoluzionario alla psicoterapia. Con l’obiettivo di bilanciare accettazione e cambiamento, la DBT offre strumenti concreti per migliorare la regolazione emotiva e il benessere personale, dimostrando che è possibile evolvere anche nelle situazioni più complesse.

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  • La mente come ponte tra esperienza e cervello: scopriamo insieme come il cervello elabora le esperienze e le emozioni

    La mente come ponte tra esperienza e cervello: scopriamo insieme come il cervello elabora le esperienze e le emozioni

    Capire il ruolo della mente

    La mente come ponte tra esperienza e cervello

    di Emanuele Fazio

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    La mente come ponte tra esperienza e cervello

    La mente non è un’entità separata dal corpo né possiede un’autonomia indipendente. Rappresenta piuttosto il modo in cui percepiamo e organizziamo le esperienze che viviamo, influenzate da complessi processi biochimici e biofisici.
    Questi processi, spesso automatici e non del tutto coscienti, costituiscono il “sistema operativo” che ci permette di interagire con la realtà. La nostra mente interpreta e dà un senso a tutto ciò che ci accade, influenzata sia da fattori esterni, come le interazioni sociali, sia interni, come ricordi ed emozioni.

    La mente e la percezione della realtà

    La mente, dunque, è il mezzo principale per interpretare il mondo. Tuttavia, questa interpretazione ha dei limiti: la nostra consapevolezza è sempre parziale. Anche il linguaggio può risultare limitato, incapace di esprimere appieno la complessità delle nostre esperienze.

    Nelle comunicazioni quotidiane, non possiamo mai trasferire fedelmente la nostra percezione agli altri, ma solo offrire una rappresentazione parziale.

    La consapevolezza come luce su un palcoscenico

    Un esempio efficace per comprendere il funzionamento della consapevolezza è quello di una luce che illumina solo una parte del palcoscenico. Questa immagine aiuta a spiegare come il nostro cervello si sia evoluto per rispondere alle minacce con rapidità, attivando automaticamente meccanismi di sopravvivenza.

    In situazioni di pericolo, infatti, non ci fermiamo a riflettere ma reagiamo d’istinto, grazie alla risposta “lotta o fuga”, regolata dall’amigdala.

    La risposta dell’amigdala in situazioni di pericolo

    L’amigdala è una struttura del cervello primitiva che, quando percepisce una minaccia, si attiva in frazioni di secondo, predisponendoci alla difesa o alla fuga. Solo dopo la reazione interviene la mente, tentando di dare un senso a quanto accaduto.

    Pensiamo, ad esempio, a quando attraversiamo la strada e vediamo una macchina avvicinarsi rapidamente. Senza pensarci, ci spostiamo per evitare l’impatto. Solo in seguito, in sicurezza, la nostra mente elabora il fatto e ci chiediamo: “Perché quella macchina non si è fermata?”.

    Il ruolo della corteccia prefrontale e l’importanza della consapevolezza del momento presente

    Questa dinamica mostra l’importanza di coltivare una consapevolezza del momento presente, che attiva la corteccia prefrontale. Quest’area del cervello è responsabile del pensiero critico e della regolazione delle emozioni.

    Pratiche come la mindfulness ci aiutano a sviluppare la consapevolezza, permettendoci di osservare pensieri ed emozioni senza esserne travolti. Di fronte a una discussione accesa, ad esempio, possiamo evitare reazioni impulsive e riflettere prima di rispondere.

    La mente come un sistema operativo intuitivo

    Un’altra analogia utile è quella della mente come un sistema operativo, che semplifica l’accesso ai processi complessi del cervello, proprio come Windows facilita l’uso del computer.

    Proprio come DOS gestisce operazioni complesse dietro un’interfaccia intuitiva, il cervello elabora neurotrasmettitori, pressioni sanguigne e stimoli sensoriali in modo nascosto. Tuttavia, a differenza di un computer, la mente può cogliere solo parte dei processi in atto, dando un’interpretazione parziale delle reazioni biochimiche.

    Quando sentiamo paura, ad esempio, percepiamo solo l’effetto senza comprenderne i dettagli neurochimici.

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    Sono Emanuele Fazio, Psicologo e DBT Skills Trainer a Roma Nord, specializzato nel supporto per la gestione dello stress e delle emozioni intense. Offro percorsi personalizzati per migliorare il benessere psicofisico e favorire una vita più serena e equilibrata. Attraverso il DBT Skills Training, imparerai strategie pratiche per ritrovare l’equilibrio emotivo e migliorare la qualità delle tue relazioni.

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    Potenziare la mente: consapevolezza e controllo delle reazioni

    Come un sistema operativo che si aggiorna, anche la mente può essere potenziata attraverso pratiche di consapevolezza. Tecniche come la mindfulness e il DBT Skills Training sviluppano la capacità di rispondere in modo riflessivo, piuttosto che impulsivo.

    Esempi pratici di mindfulness nella vita quotidiana

    Una giornata stressante al lavoro può portarci a reagire in modo negativo, riversando lo stress su familiari o colleghi. Con una pratica costante di mindfulness, però, possiamo riconoscere e gestire lo stress, evitando conflitti e mantenendo la calma.

    Allo stesso modo, durante una discussione accesa, possiamo fermarci, riflettere sulle nostre emozioni e rispondere in modo costruttivo.

    La mente e l’allegoria della caverna di Platone

    La nostra mente interpreta la realtà in modo parziale, ricordandoci l’allegoria della caverna di Platone, in cui i prigionieri vedono solo ombre della realtà. Anche la nostra mente ci offre una visione limitata delle esperienze.

    Platone ci invita a uscire dalla caverna per vedere la realtà in modo completo. Allo stesso modo, pratiche di consapevolezza e auto-riflessione ci permettono di uscire dai nostri schemi mentali e di osservare la mente con distacco.

    Possiamo esplorare il nostro mondo interiore e comprendere schemi di pensiero limitanti, sostituendoli con un atteggiamento mentale aperto e consapevole.

    In sintesi, la mente è un ponte che collega le nostre esperienze con i processi cerebrali. Sebbene limitata nella sua capacità di percezione, attraverso la consapevolezza e la mindfulness può essere potenziata per migliorare il benessere personale. Conoscere questi meccanismi ci aiuta a diventare protagonisti del nostro equilibrio emotivo.

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  • Bullismo Scolastico: Il Ruolo Decisivo degli Insegnanti nel Contrastarlo

    Bullismo Scolastico: Il Ruolo Decisivo degli Insegnanti nel Contrastarlo

    Il ruolo degli insegnanti nel contrasto al bullismo scolastico

    Bullismo Scolastico: Prevenzione e Intervento per il Benessere degli Studenti

    di Emanuele Fazio

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    Insegnanti che affrontano il bullismo scolastico in classe

    Il bullismo scolastico rappresenta un problema serio e diffuso, con conseguenze devastanti sia a livello psicologico che accademico. Secondo recenti studi, circa il 30% degli studenti italiani tra i 12 e i 18 anni ha subito episodi di bullismo, che hanno un impatto significativo sul benessere mentale e fisico. Le vittime di bullismo tendono a sviluppare sintomi di ansia, depressione e isolamento sociale, con ripercussioni gravi sulla loro salute emotiva. Ma il bullismo scolastico non danneggia solo le vittime: colpisce l’intero ambiente scolastico, minando il senso di sicurezza e comunità.

    La responsabilità degli insegnanti nel contrasto al bullismo

    Essere in prima linea nella prevenzione e gestione del bullismo è una responsabilità cruciale per gli insegnanti. La loro presenza e il loro intervento tempestivo possono fare la differenza nell’identificare il bullismo scolastico fin dai primi segnali. Tuttavia, il problema non è solo l’assenza fisica durante gli episodi di bullismo, ma anche la difficoltà nel riconoscere i segni meno evidenti, in particolare quelli del bullismo indiretto.

    Competenze chiave per contrastare il bullismo scolastico

    Gli insegnanti devono imparare a monitorare le dinamiche di gruppo e riconoscere cambiamenti sottili nei comportamenti degli studenti, come esclusioni sociali o atteggiamenti non verbali di derisione o disprezzo. La formazione continua e il confronto con psicologi scolastici possono essere strumenti preziosi per aiutarli a sviluppare queste competenze.

    Per un intervento efficace, gli insegnanti devono sviluppare specifiche competenze, tra cui:

    • Identificare il bullismo scolastico: saper riconoscere i comportamenti di bullismo in classe e nell’ambiente scolastico.
    • Valutare la gravità degli episodi: comprendere le differenze tra i vari episodi e intervenire in modo appropriato.
    • Attuare una prevenzione attiva: promuovere un ambiente scolastico inclusivo e implementare strategie per ridurre il rischio di bullismo.

    Che cos’è il bullismo scolastico?

    Il bullismo è un comportamento aggressivo, diretto o indiretto, caratterizzato da azioni intenzionali volte a danneggiare la vittima, ripetute nel tempo e con uno squilibrio di potere tra bullo e vittima. Sebbene gli insegnanti riconoscano queste caratteristiche a livello teorico, spesso faticano a identificarle nella realtà quotidiana. La difficoltà aumenta quando si tratta di bullismo indiretto, come esclusione sociale o pettegolezzi, più subdoli rispetto al bullismo fisico o verbale.

    Tipologie di bullismo scolastico: diretto e indiretto

    Il bullismo diretto include aggressioni fisiche come colpi, spintoni o minacce verbali. Questi comportamenti sono più facilmente identificabili dagli insegnanti, che tendono a considerare questi episodi come più gravi. D’altro canto, il bullismo indiretto, come esclusione sociale, pettegolezzi o espressioni facciali denigratorie, è più difficile da individuare e viene spesso sottovalutato. Tuttavia, gli effetti psicologici di quest’ultimo possono essere altrettanto devastanti.

    Esempio di bullismo indiretto:

    Un esempio emblematico di bullismo indiretto è rappresentato da Laura, una studentessa delle medie. Laura era spesso esclusa dalle attività sociali del suo gruppo classe e vittima di pettegolezzi diffusi principalmente tramite i social media. Sebbene gli insegnanti non fossero consapevoli della gravità della situazione, i continui episodi di emarginazione hanno portato Laura a sviluppare ansia sociale e a ritirarsi dalle attività scolastiche. Solo grazie all’intervento di un insegnante particolarmente attento, la situazione è emersa, e la scuola ha potuto prendere provvedimenti.

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    Discrepanze nella percezione del bullismo: insegnanti vs studenti

    Uno degli ostacoli principali al contrasto efficace del bullismo è la discrepanza tra la percezione degli insegnanti e quella degli studenti. Mentre il 75-85% degli insegnanti afferma di intervenire frequentemente, solo il 25-35% degli studenti ritiene che ciò avvenga regolarmente. Questa divergenza suggerisce che molti episodi di bullismo passano inosservati o non vengono gestiti in modo adeguato. È quindi necessario aumentare la formazione e la consapevolezza tra gli insegnanti per migliorare la loro capacità di intervenire.

    Come rispondere al bullismo scolastico: strategie di intervento

    Il bullismo è un fenomeno di gruppo e relazionale, non solo un problema individuale tra bullo e vittima. Il contesto sociale della scuola, inclusi gli insegnanti, i genitori e i coetanei, gioca un ruolo cruciale nel facilitare o prevenire episodi di bullismo. Un intervento tempestivo e visibile da parte degli insegnanti, supportato da genitori e coetanei, può scoraggiare il ripetersi di questi episodi.

    Strategie di intervento:

    • Creare un ambiente scolastico inclusivo in cui gli studenti si sentano sicuri e rispettati.
    • Lavorare attivamente con i genitori per migliorare la comunicazione e la gestione dei comportamenti problematici.
    • Implementare regole chiare e conseguenze coerenti per i comportamenti di bullismo.

    Il supporto psicologico nel contrasto al bullismo scolastico

    Gli psicologi scolastici o esterni rappresentano una risorsa preziosa nel contrasto al bullismo, sia per gli insegnanti che per gli studenti. Attraverso incontri regolari con i docenti, possono offrire supporto nel riconoscere i segni precoci di bullismo e nel gestire situazioni delicate. Inoltre, possono fornire assistenza alle vittime, aiutandole a sviluppare strategie di coping efficaci, e ai bulli, insegnando loro alternative ai comportamenti aggressivi.

    Prevenzione del bullismo a lungo termine: programmi scolastici basati sull’evidenza

    La ricerca mostra che la prevenzione del bullismo è più efficace quando l’intera scuola è coinvolta in un programma strutturato. Questi programmi, basati sull’evidenza, non solo offrono misure preventive, ma includono anche strategie di intervento per gestire episodi di bullismo già accaduti. Gli insegnanti devono essere formati su questi programmi per fare scelte informate e applicare pratiche efficaci nella loro scuola.

    Programmi basati sull’evidenza:

    La pratica basata sull’evidenza si riferisce a un approccio che utilizza i migliori dati disponibili per informare le decisioni su politiche e programmi. Nel campo dell’istruzione, questi programmi mirano a modificare le pratiche scolastiche nel tempo, creando un ambiente più sicuro per tutti gli studenti.

    Il bullismo scolastico è un problema complesso che richiede un intervento multidisciplinare. Gli insegnanti, con la giusta formazione e supporto, possono contribuire in modo significativo a creare un ambiente scolastico sicuro e inclusivo, riducendo l’incidenza del bullismo e migliorando il benessere degli studenti.

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  • Analisi Transazionale

    Blog di psicologia

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    di Emanuele Fazio

    Analisi Transazionale

    L’Analisi Transazionale (AT) è una teoria psicologica e un approccio terapeutico sviluppato da Eric Berne negli anni ’50. È nata come una forma di psicoterapia che si concentra sulle interazioni sociali e sui modelli di comportamento tra individui. Ecco un panorama dettagliato della nascita e dello sviluppo dell’Analisi Transazionale:


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    Nascita dell’Analisi Transazionale

    Eric Berne (1910-1970):
    • Formazione e Background: Eric Berne era uno psichiatra e psicoterapeuta canadese. Dopo essersi formato come psichiatra e aver lavorato con il metodo psicoanalitico, Berne iniziò a sviluppare un approccio diverso, influenzato dalla psicologia sociale e dal pensiero freudiano.
    • Pubblicazione Fondamentale: Nel 1961, Berne pubblicò “Games People Play” (in italiano “Giochi che giocano le persone”), un libro che spiegava i concetti di base dell’Analisi Transazionale. Questo libro, rivolto a un pubblico generale, rese l’AT accessibile al grande pubblico e contribuì significativamente alla sua diffusione.
    • Concetti Fondamentali: Berne introdusse i concetti di “stati dell’io” (Genitore, Adulto, Bambino), “giochi psicologici” e “copioni di vita”. Questi concetti erano volti a spiegare come le persone interagiscono tra loro e come i modelli di comunicazione influenzano le relazioni e il comportamento.

    Sviluppo e Espansione dell’Analisi Transazionale

    Anni ’60 e ’70:
    • Formazione e Applicazioni: Negli anni ’60, l’AT si sviluppò come un approccio terapeutico e di crescita personale. I professionisti iniziarono a utilizzare l’AT non solo in terapia individuale, ma anche in contesti di gruppo e organizzativi.
    • Diffusione: Durante questo periodo, l’AT divenne sempre più popolare e si diffusero numerose scuole e corsi di formazione. Le idee di Berne influenzarono anche altri campi, come l’educazione e la psicologia organizzativa.
    • Associazione Internazionale: Nel 1964, fu fondata l’International Transactional Analysis Association (ITAA) per promuovere e standardizzare l’uso dell’AT a livello globale. Questo contribuì alla creazione di una rete professionale e accademica per l’AT.
    Anni ’80 e ’90:
    • Evoluzione e Sviluppo: Negli anni ’80, l’AT continuò a evolversi con contributi significativi da parte di diversi esperti. Alcuni dei concetti chiave come i “Giochi” e i “Copioni” furono esplorati in profondità e applicati in vari contesti terapeutici e non terapeutici.
    • Applicazioni in Diversi Contesti: L’AT iniziò a essere applicata in ambito aziendale e educativo, oltre che terapeutico. L’uso delle tecniche di AT nella formazione e nello sviluppo personale divenne più comune.
    • Sviluppo di Nuovi Approcci: Fu sviluppata una serie di approcci e tecniche specifiche all’interno dell’AT, inclusi interventi focalizzati sul cambiamento dei “copioni di vita” e miglioramenti nelle tecniche di comunicazione interpersonale.
    Anni 2000 e Oltre:
    • Consolidamento e Innovazione: L’AT è diventata una parte consolidata del panorama psicoterapeutico e della psicologia applicata. Nuove ricerche e pratiche hanno continuato a espandere e affinare le tecniche dell’AT.
    • Formazione e Certificazione: L’AT è stata standardizzata e regolata attraverso programmi di formazione e certificazione. L’ITAA e altre organizzazioni professionali continuano a fornire risorse, formazione e certificazione per i praticanti di AT.
    • Continuità e Sviluppo: L’AT continua ad essere una disciplina attiva, con pratiche terapeutiche, corsi di formazione e ricerche in corso che espandono la comprensione e l’applicazione di questo approccio psicologico.


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    Principali Concetti dell’Analisi Transazionale

    Stati dell’Io:
      • Genitore: Rappresenta le norme e i valori appresi dai genitori e dalle figure di autorità.
      • Adulto: Rappresenta il pensiero razionale e la capacità di prendere decisioni basate sulla realtà.
      • Bambino: Rappresenta le emozioni e le reazioni basate sulle esperienze infantili.
    Giochi Psicologici:
      • Descrizione: Modelli di comportamento ripetitivi e disfunzionali che le persone utilizzano per ottenere conferme e gratificazioni emotive.
    Copioni di Vita:
      • Descrizione: Piani inconsci che influenzano il comportamento e le scelte di vita, basati su esperienze e influenze infantili.
    Contratti:
      • Descrizione: Accordi espliciti tra individui per stabilire obiettivi chiari e ruoli nei contesti terapeutici o di crescita personale.

    In sintesi, l’Analisi Transazionale è un approccio psicologico che ha avuto una lunga e significativa evoluzione. Dalla sua nascita con Eric Berne fino alla sua attuale applicazione e sviluppo, l’AT ha influenzato profondamente il campo della psicologia e continua a offrire strumenti utili per comprendere e migliorare le interazioni umane e la crescita personale.

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  • Violenza a danno degli operatori sanitari

    Blog di psicologia

    La violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari

    di Emanuele Fazio

    Psicologia sociale

    La violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari

    La violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari

    La violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari (e altre figure operanti nel settore) è un sottoinsieme della violenza sul posto di lavoro, che è a sua volta un sottoinsieme del concetto di violenza.

    Il concetto di violenza

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità, con il termine violenza, intende “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o effettivo, contro sé stessi, un’altra persona o contro un gruppo o una comunità, che provoca o ha un’alta probabilità di provocare lesioni, morte, danni psicologici, abuso o privazione”[1].

    La violenza sul posto di lavoro

    La violenza sul posto di lavoro è “[l’] insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e che includono la violenza di genere e le molestie. Con violenza di genere e molestie si intendono:

    • la violenza e le molestie perpetrate a danno di persone a causa del loro sesso o genere o che colpiscono in modo sproporzionato persone di un particolare sesso o genere;
    • le molestie sessuali.[2].
    Pratiche e comportamenti

    Le pratiche e i comportamenti che possono essere ricondotti al concetto generale di violenza e molestie sul luogo di lavoro è molto ampio, e il confine con l’altro insieme che contiene le pratiche e i comportamenti ritenuti invece accettabili è spesso poco delimitato. Inoltre, la percezione in contesti e culture tra loro differenti su ciò che costituisce violenza è così variegata, che trovare una definizione condivisa può rappresentare una sfida non di poco conto.

    Inoltre, i comportamenti agiti nei confronti dei lavoratori possono essere giudicati inaccettabili solo ed esclusivamente da chi ne subisce le conseguenze o teme di subirle, quindi dai lavoratori medesimi. A loro spetta quindi l’ultima parola su cosa debba definirsi come violenza, molestia o abuso, per quanto attiene il loro specifico caso, se già vittimizzati, o la loro personale rappresentazione del fenomeno.


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    ° stili di personalità non funzionali;
    ° bassa autostima;
    ° difficoltà relazionali al lavoro, a scuola, in famiglia e con il partner.


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    Un po’ di storia

    Storicamente, il primo sforzo significativo verso una definizione condivisa fu compiuto in occasione del meeting organizzato dalla Commissione Europea a Dublino nel maggio 1995, in cui venne proposta e ratificata la seguente definizione: “episodi in cui le persone subiscono abusi, minacce o aggressioni, in circostanze correlate al loro lavoro e tali da determinare il rischio di compromissione della loro sicurezza, salute e/o benessere”[3].

    In sostanza, violenza, violenza sul posto di lavoro e violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari sono concetti le cui definizioni sono sovrapponibili.

    La Guideline[4] edita a cura dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, del Consiglio Internazionale delle Professioni Infermieristiche e della Federazione Sindacale Internazionale dei Lavoratori del Settore Pubblico quale atto finale del Programma Congiunto sulla Violenza sul Posto di Lavoro nel Settore Sanitario (JPWVHS), dal titolo “Framework Guidelines for Addressing Workplace Violence in the Health Sector” (Ginevra, 2002), definisce la violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari adottando la dicitura licenziata dal meeting della Comunità Europea prima citata, con l’aggiunta della frase “compresi gli spostamenti verso e dal posto di lavoro”.

    Tale specificazione cattura anche tutti quegli episodi che lungi dall’essere ricondotti a reazioni di natura impulsiva e preterintenzionale, contemplino la premeditazione da parte dell’offensore.

    La stessa, riporta la dicitura dell’Istituto Nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro (NIOSH): “atti violenti (comprese le aggressioni fisiche e le minacce di aggressione) diretti a persone al lavoro o in servizio”[5]. Sempre secondo il NIOSH, la violenza sul posto di lavoro spazia dal linguaggio offensivo o minaccioso fino all’omicidio[6].

    In Italia

    In Italia, le definizioni sono quelle dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie, che riprendono sia la definizione del NIOSH (ma da una pubblicazione precedente a quella del 2002) che la definizione del JPWVHS[7]. La stessa definizione del NIOSH è contenuta nella Raccomandazione n. 8/2007 del Ministero della Salute[8].

    La violenza sul posto di lavoro a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari (e altre figure occupate all’interno delle strutture sanitarie e socio-sanitarie) sembrerebbe non presentare caratteristiche tali da differenziarla dalla violenza in altri ambiti settoriali.

    La violenza a danno degli operatori sanitari differisce dalla violenza sul posto di lavoro in generale, in quanto in altri settori la violenza è spesso determinata da reati contro il patrimonio, mentre negli ospedali è prevalentemente determinata “dai pazienti e occasionalmente dai loro familiari che si sentono frustrati, vulnerabili e fuori controllo”[9].

    Prevalenza del fenomeno

    Una recente revisione sistematica della letteratura congiunta ad una meta-analisi riguardo alla prevalenza della violenza sul posto di lavoro nel settore sanitario, ha evidenziato che nel mondo, nel periodo di un anno, il 61,9% dei lavoratori ha subito una qualche forma di violenza (Intervallo di confidenza 95%, 56,1% ≤ µ ≥ 67,6%), il 42.5% (IC 95%, 38,9% ≤ µ ≥ 46,0% CI 38.9%) ha subito violenza non di natura fisica e il 24,4% (IC 95%, 22,4% ≤ µ ≥ 26,4%) di natura fisica.


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    Bibliografia

    [1] Krug E.G. et al., eds. World report on violence and health. Geneva, World Health Organization, 2002.

    [2] Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 nel corso della 108ª sessione della Conferenza generale della medesima Organizzazione e ratificata con legge n. 4 del 15 gennaio 2021 dal Parlamento italiano.

    [3] Wynne, R., Clarkin, N., Cox, T., & Griffith, A. (1997). Guidance on the prevention of violence at work. Office for Official Publications of the European Communities.

    [4] Guidelines for Preventing Workplace Violence for Healthcare and Social Service Workers (2016).

    [5] CDC/NIOSH. Violence. Occupational Hazards in Hospitals. 2002. https://www.cdc.gov/niosh/docs/2002-101/pdfs/2002-101.pdf?id=10.26616/NIOSHPUB2002101

    [6] ibidem

    [7] “Ogni aggressione fisica o tentativo di aggressione, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica nel posto di lavoro” e “Incidenti in cui i lavoratori sono abusati, minacciati o aggrediti in situazioni correlate al lavoro, incluso il trasferimento, e che comportano un rischio implicito o esplicito per la loro sicurezza, benessere o salute”.

    [8] Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema – Ufficio III

    [9] CDC/NIOSH. Violence. Occupational Hazards in Hospitals. 2002. https://www.cdc.gov/niosh/docs/2002-101/pdfs/2002-101.pdf?id=10.26616/NIOSHPUB2002101

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    Mi chiamo Emanuele Fazio e sono uno psicologo.
    Aiuto le persone a vivere una vita più appagante e significativa, attraverso la riduzione dello stress e il miglioramento delle relazioni interpersonali.

    Mi occupo dei disagi legati a:

    ° stati d’ansia e depressivi;
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    Apprendimento sociale

    L’influenza degli altri sul nostro comportamento

    di Emanuele Fazio

    Apprendimento sociale

    La teoria dell’apprendimento sociale parte dal presupposto che la personalità di ciascun individuo è plasmata dall’ambiente familiare e da tutti gli altri ambienti nei quali l’individuo cresce e matura, in particolare fino alla prima età adulta.

    Storicamente, l’apprendimento sociale ha fatto riferimento all’apprendimento attraverso l’imitazione delle azioni di altre persone, in particolare di coloro i quali sono significativi per colui che apprende. Tuttavia, il concetto di apprendimento sociale fa ora maggiore riferimento a qualsiasi tipo di influenza che le nostre relazioni con gli altri hanno sul nostro comportamento, convinzioni e valori.

    La teoria dell’apprendimento sociale vede gli obiettivi sociali, quali ad esempio: ottenere l’approvazione degli altri, dominare gli altri o dipendere dagli altri, come forti spinte in grado di modificare il nostro comportamento.

    Emanuele Fazio
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    Importanti psicologi associati alla teoria dell’apprendimento sociale sono stati Julian B. Rotter, Albert Bandura e Walter Mischel. I primi teorici dell’apprendimento sociale furono il team di John Dollard e Neal Miller nei primi anni ’40. Dollard e Miller ipotizzarono che gli umani avrebbero un innato desiderio di imitare il comportamento degli altri.

    Dollard e Miller

    Il lavoro di Dollard e Miller si concentrò principalmente sui bambini; tuttavia, hanno anche esaminato il comportamento di gruppi di adulti. Sebbene il lavoro di Dollard e Miller sia stato un primo passo importante nella spiegazione dell’apprendimento sociale, la loro teoria è stata ostacolata dal fatto che faceva affidamento sulla teoria delle pulsioni, oggi meno accreditata per spiegare la motivazione umana.

    Teoria delle pulsioni

    La teoria delle pulsioni postula che il comportamento sia motivato da uno stato interno di disagio, determinato dalla privazione di un bisogno, che spinge le persone a provare di soddisfarlo e ridurre quindi l’intensità insopportabile della pulsione. Pertanto, gli psicologi parlano di una teoria della riduzione della pulsione, per cui le persone sono motivate a tornare a uno stato neutro e privo di pulsioni in cui ci si sente a proprio agio, noto come omeostasi. Gli svantaggi della teoria delle pulsioni sono, in primo luogo, che le pulsioni sono stati fisiologici interni e che quindi non possono essere misurati. Se non possono essere misurati, non possono essere utilizzati per prevedere il comportamento futuro. In secondo luogo, se l’obiettivo finale delle persone è lo stato neutro di omeostasi, allora tutto il comportamento è considerato un tentativo di evitare il disagio. Ma le persone non si accontentano di evitare il disagio. Pertanto, la teoria delle pulsioni è inadeguata – ad esempio – a spiegare il comportamento guidato dagli obiettivi, in particolare quando le motivazioni sociali sono in conflitto con il comfort fisico.

    La legge empirica dell’effetto

    L’alternativa più importante alla teoria delle pulsioni è la legge empirica dell’effetto, che propone che le persone non solo cercano di ridurre la stimolazione negativa, ma anche di migliorare la stimolazione positiva. Tutti i comportamenti sono visti come un tentativo di ottenere i risultati desiderati, chiamati rinforzi. I teorici tradizionali dell’apprendimento, come B. F. Skinner, sono noti come psicologi della risposta allo stimolo. Credono che per prevedere il comportamento sia necessario solo sapere quali sono gli stimoli nell’ambiente e quali sono le risposte evidenti dell’individuo. Il vantaggio della teoria dell’apprendimento è che fornisce un approccio scientifico per condurre ricerche psicologiche sul comportamento. Tuttavia, Skinner era contrario a considerare gli stati mentali – pensieri, sentimenti o credenze – quali predittori di un determinato comportamento. L’approccio stimolo-risposta di Skinner può funzionare ragionevolmente bene se applicato a organismi relativamente semplici come ratti e piccioni. Tuttavia, ha dei limiti come strumento per comprendere i comportamenti complessi degli esseri umani.

    Julian Rotter

    Julian Rotter ha sviluppato una teoria dell’apprendimento sociale della personalità basata sui principi dell’apprendimento. Due gli assunti alla base della teoria di Rotten:

    • la personalità umana è appresa;
    • la maggior parte dei comportamenti vengono appresi e acquisiti attraverso la propria esperienza con altre persone.

    Ciò significa che la personalità non è fissata in una particolare età di sviluppo, ma può essere modificata o cambiata attraverso l’apprendimento. In altre parole, l’accumulo di esperienze dà origine alla personalità. Esperienze negative influenzano la personalità, e più specificatamente: gli stili di personalità (stati di rilevanza non clinica, ad esempio un soggetto non sempre a suo agio quando si relaziona con gli altri) gli stati di personalità (di rilevanza clinica, ad esempio un soggetto che evita gli altri a causa di una depressione maggiore) e infine i tratti di personalità (di rilevanza clinica, ad esempio un soggetto affetto da disturbo evitante di personalità).

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    Alla base di un metodo c’è sempre una teoria

    di Emanuele Fazio

    La Teoria Biosociale proposta da Marsha Linehan postula che la sregolatezza emotiva1 è determinata sia da fattori genetici predisponenti che dalle caratteristiche dell’ambiente nel quale il soggetto è cresciuto, in particolare nel periodo tra l’infanzia e l’adolescenza.
    Le caratteristiche principali dell’ambiente, che in associazione con i fattori genetici predisponenti determinano la sregolatezza emotiva, sono quelle che lo rendono sminuente2.

    L’ambiente socio-familiare sminuente

    La Teoria Biosociale definisce come ambiente sminuente quello in cui le emozioni, i pensieri e i comportamenti sono giudicati dai genitori o altre figure affini o sostitutive come inopportuni, non in linea con l’etica sociofamiliare di appartenenza.
    Una persona geneticamente predisposta alla sregolatezza emotiva inizia a manifestare le proprie emozioni troppo spesso e in modo molto intenso.
    Ciò può indurre nei genitori o in altre figure affini o sostitutive, sentimenti di disagio e di incomprensione.
    In genere, queste risposte emotive intense e ipersensibili sono regolarmente ignorate oppure punite e giudicate insindacabilmente inappropriate o socialmente inaccettabili.
    Ma il comportamento emotivamente sregolato, soprattutto se l’emozione è stata repressa per lungo tempo, ottiene anche l’effetto di attirare la tanto agognata attenzione.
    Un meccanismo per molti versi assimilabile ai casi di isteria narrati da Freud ed epigoni.

    Il condizionamento operante

    Per effetto del condizionamento operante, la persona apprende che per attirare l’attenzione altrimenti negata o flebile, deve manifestare comportamenti emotivamente sregolati.
    Spesso riceve punizioni3, ma qualche volta riceve per l’appunto l’agognata attenzione, che costituisce, secondo il modello dell’analisi del comportamento, una ricompensa.
    Ricompensare in modo saltuario un comportamento ha un potere rinforzante maggiore rispetto al ricompensare costantemente.
    Il risultato è che la manifestazione emotiva sregolata acquista sempre più probabilità di essere messa in atto.

    Per Linehan, un ambiente sminuente sortisce anche l’effetto di non far ben comprendere alla persona che tipo di emozione sta provando in quel preciso momento.
    Infatti, tra le skill DBT insegnate ai clienti, vi è quella di comprendere e dare un nome alla propria emozione.

     

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    emanuele fazio psicologo a roma nord

    Ancora sull’ambiente sminuente

    Secondo la Teoria Biosociale, un altro effetto di un ambiente sminuente è l’ipersemplificazione del processo di problem solving4, per cui l’emozione negata, non riconosciuta, sminuita o punita non apporta valenza informativa saliente all’evento che si sta vivendo, per cui la scelta della risposta più appropriata è delegata alla valutazione effettuata dai soli processi cognitivi.
    Il che non sarebbe del tutto limitante, laddove le emozioni apportassero scarsa valenza informativa, come si è sempre creduto prima che Antonio Damasio pubblicasse L’errore di Cartesio e stimolasse l’avvio di un campo di ricerca molto fruttuoso.

    A causa dello straripamento emotivo in atto, che riduce l’efficacia dei circuiti cognitivi, la persona è costretta a fare ricorso, nel migliore dei casi, a cognizioni automatiche (ad esempio le euristiche) ma più frequentemente, soprattutto in soggetti clinici, a risposte impulsive, guidate da riflessi primari come il riflesso attacca o fuggi o il riflesso di freezing.

    La sregolatezza emotiva nei soggetti borderline

    Nei soggetti borderline, ma non solo in essi, lo straripamento emotivo è preceduto o è parallelo al tentativo di regolare l’espressione emotiva per il tramite di comportamenti quali ad esempio il tentativo di suicidio, l’autolesionismo non suicidario attuato attraverso tagli o bruciature inflitti agli arti superiori, inferiori o altre parti del corpo, l’abuso di sostanze oppure la messa in atto di comportamenti ritenuti compensatori, come la promiscuità sessuale, furti, litigi, guida spericolata di veicoli ed altri ancora.

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    1 In genere tradotto con disregolazione emotiva, dall’inglese emotional dysregulation. La parola dysregulation è un neologismo creato combinando il prefisso dys- con regulation. Secondo il Dizionario Webster, dys- ha varie radici ed è di origine greca. Viene spesso confuso con la parola disregulation, con il prefisso dis- che significa “l’opposto di” o “assenza di”; mentre con disregulation ci si riferisce alla rimozione o all’assenza di regolazione, la dysregulation si riferisce a modi di regolare che sono inappropriati o inefficaci. Inoltre, il termine disregolazione non esiste in italiano e la migliore approssimazione al significato originario del concetto è appunto, a mio modesto avviso, sregolatezza.

    2 In genere tradotto con ambiente invalidante, dall’inglese invalidating environment. L’aggettivo sminuente rende meglio il significato originario del concetto.

    3 Anche sotto forma di mancanza di attenzione.

    4 Il problem solving è una procedura finalizzata alla modifica del comportamento, attraverso la valutazione da parte del paziente, con l’aiuto del terapeuta, di tutte le possibili alternative di comportamento data una situazione problematica e l’apprendimento dell’alternativa considerata e poi verificata essere la più efficace.

  • Mindfulness

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    Mindfulness

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    di Emanuele Fazio

    Introduzione alla mindfulness

    Mindfulness significa trovarsi costantemente (o quasi) in uno stato mentale definito “saggio” ed essere vigili di ciò che sta accadendo nel momento presente, attimo dopo attimo.
    La pratica della mindfulness consiste di tre precise azioni: osservare, descrivere e partecipare il momento presente.

    Che cosa significa tutto ciò?
    Significa non lasciare che la mente vada alla deriva (cioè, che sia vigile del momento presente e che quindi non presti attenzione a fantasie del passato o del futuro).
    Imparare a praticare la mindfulness e imparare a vivere nel presente senza preoccuparsi troppo del futuro o del passato, ed è un’abilità utile per chiunque.
    La mindfulness è una pratica molto utilizzata in psicologia per il trattamento di ansia, rabbia, depressione e altri problemi di natura psicologica sia temporanei che duraturi, sia lievi che gravi.
    Sostanzialmente, la mindfulness è lo stato mentale che può essere raggiunto quando prestiamo nella maggior parte del tempo la nostra attenzione a ciò che sta accadendo nel momento presente.
    Implica quindi, da una parte la serena accettazione dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e dei nostri comportamenti, qualunque essi siano, ma dall’altra la selezione e l’attenzione prestata solo a quei pensieri, a quelle emozioni e a quei comportamenti che hanno attinenza con il momento presente.

    Rimanere concentrati sul presente.
    Rimanere concentrati sul presente può sembrare banale per molti, ma in realtà è più facile a dirsi che a farsi.
    La nostra mente può facilmente andare alla deriva: troppo spesso perdiamo il contatto con il momento presente e restiamo assorbiti da pensieri, il più delle volte ossessivi, sulle cose che ci sono accadute in passato o che temiamo ci accadano nel futuro.
    Ma indipendentemente da quanto la nostra mente si allontani dal presente, la pratica della mindfulness ci consente di tornare immediatamente al momento presente, attraverso l’uso di efficaci tecniche che saranno descritte in seguito

    La mindfulness è solitamente associata alla meditazione.
    Sebbene la meditazione sia un modo efficace per praticare la mindfulness, la mindfulness è un modo di essere presenti, che puoi usare in qualsiasi momento.
    È una forma di consapevolezza cosciente che si può raggiungere solo se ci si concentra intenzionalmente sul momento presente.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    L’attenzione e l’atteggiamento non giudicante sono i due elementi primari della mindfulness

    Attenzione

    Molti di noi soffrono di quella che è nota come “mente scimmia”, per cui la mente si comporta come una scimmia che salta da un ramo all’altro.
    La nostra mente può oscillare tra un pensiero e un altro e di solito non abbiamo idea di come siamo finiti a pensare a qualcosa.

    La mente scimmia oscilla tra il passato, rimuginando su ciò che è successo o su ciò che tu pensi sarebbe successo se tu avessi agito diversamente, e il futuro, poiché ti rende ansioso (o semplicemente curioso) di ciò che potrebbe accadere. La mente scimmia ti impedisce di vivere pienamente l’esperienza del momento presente.

    Ricorda, mindfulness significa dirigere la tua attenzione su ciò che sta accadendo qui e ora.

    Atteggiamento non giudicante

    Sospendere il giudizio è tra i principi base della mindfulness.
    Quindi, una persona consapevole sa come accettare la realtà e non si impegna a evitarla oppure a interpretarla in maniera inaccurata.
    Ciò può sembrare una ovvietà, ma una volta che si inizia a praticare la mindfulness, ci si renderà conto di quanto spesso emettiamo giudizi affrettati su noi stessi e sui nostri pensieri.

    Ecco alcuni esempi di frasi utilizzate quando giudichiamo noi stessi oppure gli altri:

    • Non sono bravo a fare questa cosa, sono decisamente negato.
    • Non mi piace la mia auto.
    • Non mi piace il mio vicino.
    • Quella persona è decisamente antipatica.

    La mindfulness è l’arte di tenere a bada il nostro giudice interiore.
    Ci permette di rimodulare le nostre aspettative e di diventare più comprensivi di come stanno effettivamente le cose.

    Ricorda, stai solo sospendendo il tuo giudizio in modo da poter avere più tempo per valutare meglio le circostanze presenti e fare la scelta migliore.
    Si possono apportare cambiamenti al proprio punto di vista solo quando il tuo stato mentale è quello ottimale.
    Inoltre, la mindfulness ti permetterà di essere più tollerante con te stesso, più accogliente rispetto alle tante esperienze non positive e più attento alle persone che ti circondano.

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    Esploriamo una delle quattro DBT Skills

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    Nessuna delle quattro DBT Skills è più importante rispetto alle altre, ma quella che cattura la maggiore attenzione di chi è interessato a praticare il DBT Skills Training attiene le skill su come migliorare la qualità delle relazioni personali. Le difficoltà relazionali, siano esse parziali, cioè limitate ad un solo contesto, oppure totali, che interessano più contesti, sono il primo segnale che ogni persona coglie quando si rende conto che è necessario un cambiamento o un miglioramento del proprio stile mentale di vita.
    I contesti generalmente coinvolti sono quello familiare, lavorativo o scolastico, socio-ricreativo (amicale, relazionale) e affettivo.
    Le difficoltà maggiori riguardano le nuove relazioni (incapacità di fare nuove conoscenze) e quelle già presenti.
    Le tre DBT Skills che fanno parte di questo gruppo si chiamano 

    DEAR MAN, GIVE e FAST

    rispettivamente utili a 

    • saper chiedere ciò di cui si ha bisogno;
    • manutenere adeguatamente le relazioni che si hanno;
    • saper dire di no quando questa risposta è la più conveniente per entrambi gli interlocutori.
    Emanuele Fazio
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    Le principali cause che ostacolano il miglioramento delle relazioni personali

    Le principali cause che ostacolano il miglioramento delle relazioni personali sono:

    Non hai le skill di cui hai bisogno.

    Il DBT Skills Training è, per l’appunto, un allenamento che serve a implementare o a migliorare certe capacità.
    Ovviamente, ci sono casi in cui tali skill devono essere apprese da zero, o quasi.
    Non necessariamente le difficoltà relazionali nascono da scarse capacità specifiche, come quelle prima dette (DEAR, MAN, GIVE) ma anche da quelle che abbiamo già visto e relative alle altre tre DBT Skill.

    Non sai bene cosa vuoi.

    È difficile essere efficaci nelle relazioni personali quando non si sa bene cosa si vuole.
    Questo può far sì che tu dica sempre no a tutto ciò che ti viene offerto o suggerito, ma non perché le soluzioni non siano ragionevoli, bensì perché non hai chiaro il tuo obiettivo o il risultato che desideri ottenere.
    Questa situazione è comune quando ci si trova in uno stato mentale emotivo, oppure quando la risoluzione dei problemi è difficile a causa di una sregolazione emotiva.
    In questi casi, la persona con cui sei in relazione manifesta tutta una serie di pensieri, emozioni e comportamenti che generano in te altrettanti pensieri, emozioni e comportamenti, in una escalation che non può che produrre incomunicabilità.

    Le tue emozioni e i tuoi impulsi hanno preso il sopravvento.

    Le emozioni sregolate e gli impulsi sono i principali determinanti dell’inefficacia relazionale.
    Tutti noi abbiamo avuto quei momenti in cui abbiamo pensato: “Non posso credere di averlo detto o fatto”.
    L’hai fatto perché eri guidato da come ti sentivi e non ti sei fermato a riflettere. Sono questi i momenti in cui danneggi le tue relazioni e poi hai bisogno di raccogliere i pezzi, assumerti la responsabilità di ciò che hai detto o fatto e chiedere possibilmente scusa.

    I tuoi pensieri e le tue convinzioni hanno preso il sopravvento.

    Ciò che pensi determina significativamente il tuo comportamento e alcune tipologie di pensiero sono di ostacolo a mantenere, accrescere o migliorare le relazioni personali.
    Ad esempio, manifestare pregiudizi, oppure assumere atteggiamenti che gli altri considerano impropri, oppure ancora esagerare con l’autocritica fino a sfociare nell’auto-disprezzo, sono tutti pensieri (e i comportamenti che ne derivano) che determinano inefficacia relazionale.

    Dimentichi o sacrifichi i tuoi obiettivi a lungo termine per i tuoi obiettivi a breve termine.

    Quando sei sopraffatto da una forte emozione, è facile perdere di vista i tuoi obiettivi a lungo termine e dare invece la priorità a ciò che vuoi fare in quel momento.
    Ad esempio, quando stai attraversando un momento difficile, potresti annullare gli appuntamenti che avevi preso con le persone oppure semplicemente non presentarti, perché ti senti meglio se rimani a casa e uscire sembra uno sforzo sovraumano.
    Tuttavia, e col tempo, finirai per sentirti escluso e i tuoi amici potrebbero pensare che tu sia inaffidabile e quindi smettere di invitarti.
    Hai dato la priorità all’esigenza impellente (quindi un impulso) di evitare una situazione ansiogena che potrebbe essere difficile da gestire a causa di come ti senti in questo momento, rispetto al tuo obiettivo a lungo termine di mantenere relazioni importanti.

    Altre persone si sono messe di traverso.

    Ci sono momenti in cui ci imbattiamo in persone che per svariate ragioni, spesso oscure, possono ostacolarci e rendere la nostra vita difficile.
    Spesso si tratta di persone che detengono un potere maggiore del nostro, e se non ci muoviamo con cautela rischiamo di finire stritolati.
    La cautela fa sì che non riusciamo a fare e a dire le cose come vorremmo, per paura di sbagliare, ma di fatto complichiamo semplicemente la situazione.

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    Esploriamo una delle quattro DBT Skills

    di Emanuele Fazio

    Praticare la mindfulness con le tre How Skills

    Abbiamo già visto come praticare la Mindfulness attraverso le What Skills.
    Le How Skills ci spiegano il modo in cui le What Skills vanno usate.
    Le tre How Skills sono le seguenti:

    atteggiamento non giudicante, singletasking, azione efficace

    Assumere un atteggiamento non giudicante significa evitare di giungere a conclusioni (in particolare quelle affrettate), spesso frutto di pensieri automatici, pregiudizi e controllo emotivo non efficace.
    Un altro modo di definire quanto appena detto è: sospendere il giudizio.
    Il giudizio non è altro che un’etichettatura: attribuire caratteristiche ad un fenomeno e pertanto includerlo in un particolare insieme.

    Un esempio renderà tutto più chiaro.
    Mi trovo davanti al cinema ad aspettare una persona con la quale avevo un appuntamento alle 21. Sono le 21 e 15 minuti, provo a chiamare dal telefono mobile, ma invano. Non è la prima volta che capita con questa stessa persona e pertanto ho il sospetto che sia una sua caratteristica. Una spiacevole caratteristica, in quanto far attendere le persone davanti al cinema rappresenta una mancanza di rispetto. Forse ritiene che il suo tempo vale più del mio?
    In questo caso, ho espresso un giudizio negativo sul fatto che la persona in questione sta ritardando a presentarsi all’appuntamento.
    E sono giunto (anzi, saltato) alla conclusione che la persona considera il suo tempo importante e il mio no.
    Ovviamente, sospendere il giudizio non significa evitare di chiarire, nei modi e nei tempi opportuni, con la persona in questione se il suo comportamento è ascrivibile al caso oppure rientra nel suo repertorio abituale.
    Vuol dire semplicemente sospendere, cioè rimandare.
    I quindici minuti di attesa possono essere investiti praticando l’osservazione, come abbiamo già visto in un precedente articolo.
    In particolare, osservando i pensieri e le emozioni che si presentano in noi durante l’attesa davanti al cinema.
    È importante evidenziare che l’atteggiamento non giudicante non implica la sostituzione di giudizi negativi con altri positivi oppure neutri.
    Implica non usare affatto i giudizi, perché i giudizi positivi o neutri possono trasformarsi rapidamente in negativi. 

    Ad esempio, supponiamo che io giudichi la persona prima detta come la persona più meravigliosa del pianeta.
    Il semplice fatto che il suo comportamento (arrivare in ritardo) confligge con tale giudizio estremamente positivo, la delusione provata è ancora maggiore. Questo atteggiamento di supervalutazione di cose e persone (in particolare persone) è tipico negli stili di personalità borderline (e ovviamente anche nei disturbi) ed è causa di maggiore conflittualità interna ed esterna.
    Affronteremo questo argomento in un altro articolo.

    Infine, quando parliamo di sospensione del giudizio, parliamo anche e soprattutto dell’auto-giudizio.
    Ci giudichiamo troppo spesso (positivamente o negativamente) in modo affrettato.
    La sospensione del giudizio riguarda in particolar modo il giudizio nei confronti di noi stessi.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    emanuele fazio psicologo a roma nord

    Singletasking

    Singletasking è l’esatto opposto di multitasking, termine che nell’accezione comune indica una persona in grado di fare più cose simultaneamente.
    Molte ricerche hanno evidenziato come i soggetti che eseguono una serie di compiti in sequenza ottengono risultati migliori rispetto a soggetti che li eseguono in simultanea, anche parziale.
    Nel nostro caso, singletasking significa fare due cose:

    • prestare attenzione solamente a ciò che attuale, che sta accadendo in quel preciso momento, evitando di divagare pensando a cose passate o future;
    • fare una cosa alla volta piuttosto che dividere l’attenzione tra più cose, come guidare l’auto e avere nel contempo una conversazione telefonica (o peggio, scorrere i messaggi ricevuti sui social media)!
    Azione efficace

    Azione efficace significa pensare e agire in funzione dell’attuale situazione, considerando i pro e i contro prima di intraprendere le azioni più opportune.
    È una skill sociale (tutte le skill hanno ricadute nelle relazioni interpersonali, ma questa ha una ricaduta maggiore).

    Un esempio renderà tutto più chiaro.
    Ho appena conosciuto una persona che fa parte della stessa associazione a cui sono iscritto. È particolarmente loquace e come tutte le persone loquaci, tende a saltare con disinvoltura da un argomento a un altro. A un certo punto inizia a parlare di politica, e mi rendo conto che ha un orientamento non esattamente sovrapponibile al mio. Si lascia andare a giudizi sprezzanti nei confronti di persone che io invece stimo e loda altri nei confronti dei quali ho alcune riserve. Cosa faccio? Annuisco per non infilarmi in un conflitto, sperando che prima o poi cambi argomento oppure controbatto per far valere anche il mio punto di vista?
    Sembrerebbe un dilemma, cioè una situazione che richieda una scelta tra due alternative ugualmente auspicabili o indesiderabili.
    Ovviamente, si tratta di un esempio e non di un indovinello (non è importante riferire quale scelta sia quella giusta, anche perché andrebbero valutati altri fattori che l’esempio non riporta) ma ciò che mi interessa evidenziare è che la skill prevede che io faccia una disamina attenta della situazione, che valuti tutte le alternative possibili (molto probabilmente non sono solo le due citate) e che poi decida il da fare, che è l’azione più efficace tra quelle possibili (quindi un efficacia relativa piuttosto che assoluta).

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    Esploriamo una delle quattro DBT Skills

    di Emanuele Fazio

    I tre stati della mente

    Chi si avvicina per la prima volta al DBT Skills Training, e più generale alle terapie psicologiche (sostegno, abilitazione e riabilitazione, counseling, psicoterapia), lamenta una emotività eccessiva e difficile da controllare, che interferisce, con gradi di intensità variabili tra persona e persona, con una vita serena e soddisfacente.
    Ma facciamo un passo indietro.
    Ogni qualvolta osserviamo (coscientemente o meno) un fenomeno, lo valutiamo attraverso due lenti: la cognizione e l’emozione.
    La cognizione attiene soprattutto il pensiero logico.
    Le due lenti vanno usate contemporaneamente, e a seconda dei fenomeni osservati, può risultare più utile e appropriata una piuttosto che l’altra.
    In ogni caso, è opportuno usarle sempre e comunque entrambe.
    Sostituiamo lenti con la parola “mente” e avremo

    Mente razionale e mente emotiva

    Esiste tuttavia un terzo stato della mente, chiamato mente saggia, e che è quello generalmente ottimale.
    Torneremo presto su questo concetto, che ho anticipato perché ne accenno più avanti.
    Passiamo pertanto a parlare di

    Praticare la mindfulness con le tre What Skills

    What in inglese sta per cosa, e le tre skill necessarie per una buona pratica sono le seguenti:

    osservare, descrivere e partecipare

    Osservare è inteso nel senso di prestare attenzione, a tutto ciò che si muove attorno a noi. Soprattutto dentro di noi, come ad esempio pensieri, sensazioni corporee, sentimenti.
    Prestare attenzione e non giudicare, il che significa anche non etichettare, cioè non dare un nome ai fenomeni.
    Limitarsi pertanto all’esperienza sensoriale prima ancora che percettiva (quest’ultima è già mediata e/o moderata da pensieri, emozioni e comportamenti).  

    Si procede in questo modo: isolati in un angolo tranquillo della tua casa o in qualunque altro posto facilmente accessibile. Siedi a terra a gambe incrociate utilizzando un cuscino oppure su una sedia. Spegni il telefono (o mettilo in modalità aereo) e fai qualche respiro profondo, prima di inspirare e poi dire ad alta voce “la mia intenzione … “. A questo punto espira e mentre lo fai dici, sempre ad alta voce, “… è quella di praticare l’osservazione”.

    Passa quindi a osservare l’ambiente circostante, la temperatura percepita, eventuali suoni che provengono da lontano (non devono essere distraenti). Poi osserva cosa accade dentro di te, come ad esempio le sensazioni corporee, i pensieri e le emozioni. Questi ultimi devono catturare la tua attenzione solo per pochi istanti, non devono fissarsi nella mente.

    Non attribuire etichette alle sensazioni! Immagina di ascoltare un brano musicale ma di riuscire a cogliere solo le note che lo compongono oppure di leggere una frase ma cogliere esclusivamente le lettere che la compongono (come se fossero semplici simboli).

    È necessaria una precisazione: la pura sensazione non esiste in natura, o per meglio dire, non è nella natura umana cogliere la pura sensazione senza avviare automaticamente il processo che conduce alla percezione. Lo sforzo che bisogna provare a fare è pertanto quello di far approssimare il fenomeno alla pura sensazione, frenando il processo che conduce alla percezione. Torneremo in seguito su questo concetto, molto importante, ma per adesso proseguiamo con l’argomento che abbiamo iniziato.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    emanuele fazio psicologo a roma nord

    Descrivere

    Descrivere è inteso nel senso di dare un nome ai fenomeni, nel nostro caso alle sensazioni e poi alle percezioni.
    È importante considerare che non è sempre facile dare un nome ad un fenomeno, non fosse altro che due persone intendono con lo stesso nome cose che possono essere diverse, ma soprattutto cose diverse possono essere etichettate, per comodità, con lo stesso nome. Inoltre, quando le ipotetiche due persone non sono altro che due istanze appartenenti alla stessa persona, ecco che la faccenda si complica.
    Pensiamo ad esempio alla mente razionale e alla mente emotiva: la nostra mente razionale può attribuire ad un fenomeno un’etichetta diversa da quella attribuita dalla mente emotiva. Se a ciò aggiungiamo che tali processi spesso avvengono al di fuori della nostra coscienza, ecco che la faccenda sembra complicarsi oltre misura.

    Si procede allo stesso modo dell’osservazione, ma giunti al punto in cui espiri, pronuncerai la frase “… è quella di praticare la descrizione”.

    Passa quindi a descrivere l’ambiente circostante: la temperatura percepita adesso avrà un nome (caldo, freddo, umido, piacevole) eventuali suoni che provengono da lontano (non devono essere distraenti) saranno adesso voci, fruscii, canto di uccelli, scrosci d’acqua. Poi descrivi cosa accade dentro di te, come ad esempio le sensazioni corporee (tremore, brividi), i pensieri e le emozioni. Per quanto attiene i pensieri, se stai per esempio pensando: “sono davvero uno sciocco a fare questa cosa, non mi servirà a nulla”, trasforma la frase, ripetendola a voce alta, in: “sto pensando che Emanuele potrebbe essere uno sciocco a fare questa pratica e che potrebbe non servigli molto”.

    Quindi, parla di te in terza persona, ovviamente sostituendo il mio nome con il tuo (a meno che anche tu non ti chiami Emanuele), usa il condizionale, sostituisci le parole generiche con parole più specifiche (cosa con pratica) e le parole più nette con altre più neutre, mantenendo il significato (a nulla con molto).

    Partecipare

    Partecipare è inteso nel senso di svolgere un compito qualsiasi, ad esempio annaffiare le piante sul balcone o rimuovere le infestanti, concentrandoti esclusivamente su ciò che stati facendo. Naturalmente, ti sarai nel frattempo rialzato e raggiunto il balcone. Sempre inspirando e espirando, ripeterai la stessa frase, sostituendo l’ultima parola con “partecipazione” e pertanto dirai “… è quella di praticare la partecipazione”. A questo punto presta attenzione a ciò che maneggi e a ciò che fai, ripetendo ad alta voce (non troppo alta, visto che sei sul balcone …): “Emanuele ha preso l’annaffiatoio e lo sta riempiendo d’acqua, e adesso versa l’acqua dentro il primo vaso, che contiene un geranio rosso. Poi passa al secondo, che contiene anch’esso un geranio rosso … “ e così di seguito.

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    La pratica della mindfulness

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    Esploriamo una delle quattro DBT Skills

    di Emanuele Fazio

    La pratica mindfulness è la meditazione?

    Il DBT Skills Training contempla, tra le sue quattro skill fondamentali, la pratica della mindfulness.
    Molti considerano la pratica della mindfulness come una forma di meditazione.
    Il che è certamente corretto.
    Tuttavia, la mindfulness viene spesso considerata come una pratica esercitata da persone dotate di un elevato senso di spiritualità.
    Anche ciò è a volte vero.
    Ma da un punto di vista psicologico, e più esattamente all’interno del DBT Skills Training, la mindfulness è soprattutto considerata una capacità di pensare e di agire (vedremo tra breve in che modo) e che può essere appresa e implementata all’interno di un percorso specifico, per l’appunto il DBT Skills Training.
    Tale capacità, se adeguatamente appresa, e naturalmente anche adeguatamente insegnata, è in grado di influenzare il nostro modo di pensare e di agire, alleviando di fatto le problematicità determinate da stress, pensieri divergente, emotività e scarso controllo degli impulsi.

    Emanuele Fazio
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    Cosa si intende con il termine mind?

    Si intende la mente.
    E quindi, cosa si intende con il termine mente?
    Da un punto di vista psicologico, che è quello che principalmente ci interessa, la mente è la modalità di funzionamento del nostro cervello, la cui funzione (cioè di mente + cervello) è quella di percepire i fenomeni che avvengono attorno a noi (ma questa è una modalità di funzionamento che anche gli animali non umani hanno) e di farne esperienza, cioè di ricavarne dati e inferenze che ci potranno tornare utili in seguito.
    Anche questa è una modalità che gli animali non umani hanno, ma gli animali umani ce l’hanno molto più sviluppata.

    Noi percepiamo i fenomeni, o per meglio dire, sentiamo i fenomeni e poi li percepiamo (sensazione e percezione sono due funzioni distinte, come vedremo in un altro articolo) e questa percezione, assieme all’esperienza, determina un’altra serie di fenomeni che si chiamano pensieri, emozioni, comportamenti, e al loro interno altri fenomeni, che chiamiamo atteggiamenti, sentimenti, impulsi, spinte motivazionali, memoria ed altri ancora.
    Tutti questi fenomeni possono essere coscienti, cioè, ci accorgiamo del fatto che stanno realmente accadendo e quindi possiamo anche descriverli, oppure possono non esserlo, nel senso che accadono, ma non ne facciamo esperienza.
    Al massimo, facciamo esperienza di ciò che determinano.
    Inoltre, e questa è una caratteristica solo degli animali umani, possiamo percepire e fare esperienza del fatto che stiamo percependo e stiamo facendo esperienza di un fenomeno.

    Il qui e ora nella pratica mindfulness

    Sviluppare la skill della mindfulness significa essenzialmente essere capaci di avere coscienza di ciò che sta realmente accadendo in quel preciso momento, limitando al massimo l’intrusione di pensieri, memorie e quant’altro non riferibile al momento presente.
    Ad esempio: se sono impegnato con una faccenda domestica, magari una di quelle che svolgo in automatico, può capitare che mi metta a pensare a qualcos’altro non pertinente con la faccenda prima detta, come potrebbe essere pensare a qualcosa che mi è successa ieri.
    Frattempo un pensiero non del tutto cosciente mi avverte che per continuare la faccenda domestica devo recuperare un oggetto che si trova in un’altra stanza.
    Automaticamente mi dirigo verso l’altra stampa, sempre rimuginando su quel qualcosa accaduto ieri.
    Arrivo nell’altra stanza e … non ricordo più il motivo per cui mi ci ero recato! Questo vuol dire, in linea di massima, non pensare mindfulness.
    Il pensiero di ciò che è accaduto ieri non è funzionale allo svolgimento del compito.

    Più estesamente, la pratica della mindfulness implica il prestare attenzione solo a ciò che sta accadendo in quel preciso momento, soprattutto a ciò che si sta verificando sottotraccia, senza che noi abbiamo piena consapevolezza di ciò.
    Come dicevo prima, molti fenomeni tra quelli che ho elencato avvengono al di fuori della nostra coscienza ma ciò che determinano è spesso cosciente.
    Se non provassimo ad avere coscienza e fare esperienza di tali fenomeni, probabilmente non saremmo in grado di fare inferenze circa la loro relazione di causa/effetto (o di correlazione), rischiando di credere che la causa di qualcosa sia qualcos’altro, invece che il fenomeno sottotraccia.
    Un altro aspetto del pensare mindfulness è quello dell’atteggiamento non giudicante.
    Parleremo in un altro articolo di questo aspetto.

    Continua 

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    La relazione tra pensiero e linguaggio è come la relazione tra mente e cervello, quest’ultima anche nota come problema mente-corpo, in quanto il cervello è il corpo. Ecco pertanto il problema pensiero-linguaggio.
    Si tratta in entrambi i casi di una relazione tra un processo mentale e un processo fisico. Le scienze umane hanno prodotto sei approcci al problema mente-corpo, che è possibile adottare anche per il problema pensiero-linguaggio.

    Emanuele Fazio
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    I sei approcci al problema mente-corpo
    • L’approccio dell’interazionismo, secondo il quale i processi mentali e i processi fisici (corpo) sono fenomeni distinti e separati, ma che tuttavia sono in grado di esercitare un’influenza reciproca. Un esempio di questo approccio è il dualismo cartesiano. L’interazionismo concorda quindi con il dualismo cartesiano sul fatto che vi siano due sostanze fondamentali (mente e corpo) ma postula un certo grado di influenza dell’una sull’altra.
    • L’approccio dell’interazionismo coordinato o parallelismo. Introdotto da Leibniz per spiegare il dualismo cartesiano, definisce il modo in cui si comportano le monadi sebbene siano ciascuna indipendente dall’altra e perseguano scopi diversi e prestabiliti. Allo stesso modo si comportano i processi mentali e i processi fisici. Sebbene siano processi distinti e separati, il loro funzionamento in parallelo sembra suggerire un rapporto di causalità. Una spiegazione proposta sia da Leibniz che da Malebranche è che entrambi i fenomeni non sono in rapporto causale diretto tra di loro, ma sono piuttosto in correlazione, essendo entrambi l’effetto di una causa unica, e cioè di un atto intenzionale di Dio. I due approcci presentati sono varianti del dualismo cartesiano.
    • L’approccio del monismo idealistico o idealismo, secondo il quale esiste solo una sostanza: la mente, mentre il corpo – e più in generale la realtà – è la sua espressione.
    • L’approccio del monismo neutrale in cui i due processi originano da una entità comune, che non è né mentale né fisica. Per Spinoza questa entità e Dio.
    • L’approccio epifenomenologico, dove la mente è un effetto secondario dei processi fisici e non viceversa.
    • L’approccio materialistico, dove i processi fisici sono l’unica realtà e quindi i processi mentali o non esistono o sono ciò che noi percepiamo dei processi fisici. Una corrente di questo approccio è il materialismo dialettico di Marx e Engels, nucleo della loro concezione materialistica della storia. Gli uomini che vivono e producono in una data società, si muovono entro determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà, quali sono i rapporti di produzione – quindi processi fisici – propri di una determinata fase dello sviluppo storico[1].
      È l’esatto opposto dell’approccio del monismo idealistico, o idealismo.
    Il problema pensiero-linguaggio

    Nell’ambito della psicolinguistica, emergono le stesse questioni del problema mente-corpo.
    Un primo approccio al problema è stato presentato da Lev Vygotskij.
    Secondo questo autore, non esistono solamente il pensiero e il linguaggio, ma anche una terza forza, il pensiero-linguaggio (o pensiero verbale). Il pensiero verbale è anche detto linguaggio interiore o endofasia.
    Esistono pertanto un pensiero che non ha alcun rapporto con il linguaggio, un linguaggio che non ha alcun rapporto con il pensiero e il pensiero verbale.
    Il pensiero verbale è il punto parziale di incontro, ad un certo punto dello sviluppo del bambino, dei due processi, di fatto una sorta di epifenomeno.
    I due processi – pensiero e linguaggio – sono indipendenti – per genesi e sviluppo – e continuano ad esserlo, tranne quando parti di loro si incontrano ad un certo punto dello sviluppo e pertanto procedono – solamente quelle parti – congiuntamente e in regime di interdipendenza.

    Abbiamo detto che il pensiero verbale è il linguaggio interiore. Secondo Vygotskij, precursore del linguaggio interiore – in inglese covert speech – è assimilabile al concetto di linguaggio egocentrico, postulato da Jean Piaget.

    Secondo Piaget, che vede lo sviluppo del linguaggio come dipendente dallo sviluppo cognitivo – a differenza della dipendenza/interdipendenza postulata da Vygotskij e dalla indipendenza postulata da Chomsky – il linguaggio egocentrico è ancella del pensiero egocentrico e privo di qualsiasi utilità, in quanto esclusivamente precursore del linguaggio socializzato.
    Per Vygotskij il linguaggio egocentrico è invece utile al bambino, in quanto sostituisce il pensiero verbale fino ai sette anni di età – dicevamo che ne è di fatto il precursore.
    Si tratta pertanto di un pensare ad alta voce stante la scarsa abilità del bambino di pensare in silenzio.

    In psicolinguistica, le funzioni del linguaggio possono essere comunicative e/o cognitive. Sono comunicative quando il linguaggio serve a comunicare pensieri – indipendentemente da come si sono formati.
    Sono cognitive quando il linguaggio serve a formare pensieri.
    Vygotskij assegna al linguaggio entrambe le funzioni.
    In particolare il linguaggio egocentrico viene introiettato poiché altrimenti molti dei pensieri verbali non si originerebbero.

    C’è da chiedersi a questo punto: se è vero che il linguaggio serve in taluni casi a formare pensieri, è possibile che la diversa struttura del linguaggio – ad esempio la grammatica oppure la semantica –tra due lingue determini una diversità anche nella formazione del pensiero?
    È l’ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui determinate strutture linguistiche generano determinate strutture mentali, e pertanto processi cognitivi, affettivi e conativi che possono in parte differire tra loro[2].

    Secondo Jackendoff il pensiero può funzionare perfettamente senza linguaggio, essendo una funzione totalmente separata da esso.
    Tuttavia il linguaggio rende possibili delle modalità di pensiero più complesse rispetto a quelle che hanno a disposizione gli organismi privi di linguaggio.

    Il linguaggio è più di un semplice mezzo di comunicazione e di trasmissione culturale; è anche uno strumento che ci aiuta a pensare.

    Per riassumere la posizione di Jackendoff, ci sono almeno tre modi in cui il linguaggio potenzia il pensiero:

    • permette di individuare e rendere consapevoli elementi astratti del pensiero (come inferenze, situazioni ipotetiche e ragionamenti controfattuali);
    • essendo coscienti, questi elementi sono a disposizione dei processi attentivi, che possono rielaborarli, stabilizzarli, arricchirli, immagazzinarli e recuperarli;
    • il linguaggio permette di isolare elementi delle nostre esperienze percettive per sottoporli a valutazione e critica. Inoltre, poiché i pensieri stessi diventano percepibili attraverso la codificazione linguistica, il linguaggio permette di impegnarci in attività di metaragionamento possibili solo per gli esseri umani.

    [1] Mutatis mutandis, Freud dirà successivamente che il funzionamento psicologico si determina necessariamente entro tre provincie della psiche: Io, Es e Super-Io. Lo scambio di contenuti all’interno di queste tre provincie avviene indipendentemente dalla nostra volontà.
    [2] Cognizione, emozione e conazione sono tradizionalmente considerate le tre componenti della mente

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    Intelligenza artificiale

    Filosofia della mente

    Intelligenza artificiale

    Isomorfismo mente-computer

    di Emanuele Fazio

    Intelligenza artificiale e isomorfismo mente-pc

    Per i teorici dell’Intelligenza Artificiale, il computer è una mente (ma non nel senso di una mente umana), e la mente (umana) è a sua volta un computer (ma non nel senso che è formato di microprocessori).

    Questo isomorfismo mente/pc – o teoria computazionale della mente – è da intendersi più come isomorfismo funzionale che strutturale.

    Ciò non toglie che alcuni filosofi lo hanno inteso anche strutturale, posizionandosi su ciò che si chiama “interpretazione forte” dell’isomorfismo mente/pc.

    Voglio precisare che dire pc significa dire software e hardware e dire mente significa dire pensiero e cervello. Pertanto il software si può paragonare al pensiero mentre l’hardware si può paragonare al cervello.
    La mia personale definizione di mente è pertanto la seguente:

    con mente si intende il cervello, compreso ciò che è in grado di fare, come ad esempio pensare, e di conseguenza ciò che ne deriva, l’essere più o meno coscienti oppure prendere le giuste decisioni.

    Ne consegue che

    con pc si intende l’hardware, compreso ciò che è in grado di fare, grazie all’aiuto del software, come ad esempio fare calcoli e produrre grafici.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Differenze importanti

    Una differenza importante che mi preme da subito evidenziare e che riprenderò non appena parleremo di funzionalismo, è quella che mentre in un pc il software non condiziona l’hardware – e viceversa – in una mente il pensiero (e ciò che ne deriva) condiziona il cervello – cioè che è in grado di modificare la sua struttura – e viceversa – cioè che il cervello è in grado di modificare il pensiero e ciò che ne deriva.
    Tengo a precisare che strutture biologiche e processi biochimici e biofisici, pensieri, stati mentali e di coscienza, decisioni e quant’altro hanno rapporti causali circolari e nessuno determina in via esclusiva l’altro, nel senso che nulla è causa esclusiva di un determinato effetto.
    I processi biochimici NON determinano gli stati di coscienza SEMPRE.
    Forse solo a volte, forse altrettanto spesso, forse in via prevalente, ma gli stati di coscienza determinano i processi biochimici – e pure quelli biofisici, il pensiero, la decisione e quant’altro, finanche la struttura del cervello.

    Sia il pc che la mente sono stati definiti sistemi intelligenti.
    Ma mentre c’è più accordo su cosa sia un “sistema”, ce ne è molto meno su cosa debba definirsi “intelligente”.

    Ma torniamo per un attimo all’isomorfismo funzionale.

    Durante gli anni ’60, diversi filosofi tra cui Davidson, Putnam e Fodor proposero una nuova teoria della mente, detta funzionalismo, o teoria computazionale della mente. Questa teoria si contrapponeva alle due teorie allora in voga: il comportamentismo e la teoria dell’identità.

    La teoria dell’identità – o del riduzionismo psicofisico – sostiene che ci sia solo una realtà sostanziale: la realtà fisica, materiale.
    Perciò la mente non può non essere qualcosa di materiale.
    La mente è pertanto identica al cervello: tutti i fenomeni e gli stati mentali prodotti dal pensiero in realtà sono fenomeni e stati neurali prodotti dapprima dal cervello.
    Pertanto ad un determinato fenomeno/stato mentale prodotto dal pensiero corrisponde un determinato fenomeno/stato neurale prodotto dapprima dal cervello.
    Il funzionalismo contestava questo assunto, in quanto non si spiegava il fatto che differenti fenomeni/stati neurali possono produrre lo stesso fenomeno/stato mentale.
    E viceversa.

    Per il funzionalismo, ciò che è importante è la funzione di uno stato mentale, non il substrato che la determina.
    In tal senso la nostra mente e un pc possono svolgere la stessa funzione – ad esempio effettuare un calcolo – sebbene fatti di strutture e materia diverse: il cervello potrebbe benissimo essere fatto di formaggio svizzero, come sosteneva Putnam!

    Ma come ho anticipato qualche riga prima, mentre in un pc il software non condiziona l’hardware – e viceversa – in una mente il pensiero condiziona il cervello – cioè, è in grado di modificare la sua struttura – e viceversa – cioè, il cervello è in grado di modificare il pensiero.
    Molto spesso questo evento segue una dinamica cosiddetta a feedback circolare.
    Modificandosi i suoi determinanti, si modificano di conseguenza i fenomeni/stati mentali.
    Quindi può andare bene anche il formaggio svizzero per strutturare il cervello, a patto che presenti le stesse caratteristiche di plasticità dell’ attuale materia che compone la struttura e facilita le funzioni e i processi neuropsicologici.

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    Filosofia della mente

    Atteggiamenti e stati mentali

    Due concetti simili ma anche diversi

    di Emanuele Fazio

    Atteggiamenti e stati mentali

    L’atteggiamento è una valutazione relativamente duratura di un oggetto, persona, gruppo, problema, pensiero o concetto utilizzando sia una scala di misura dicotomica – ad esempio negativo o positivo – che una scala a più valori.

    Gli atteggiamenti e pertanto la valutazione possono risentire di credenze, emozioni o altri atteggiamenti collegati all’oggetto della valutazione.

    Gli stati mentali fanno riferimento ad una condizione particolare nella quale si trova un essere umano che va oltre l’atteggiamento nei confronti di qualcosa – anche se spesso includendolo oppure essendo questo l’unico elemento determinante – e che sono determinati da fattori quali la salute e lo stato di benessere, aspetto, umore, linguaggio, socievolezza, cooperazione, espressione facciale, attività motoria, attività mentale, stato emotivo, tendenza di pensiero, consapevolezza sensoriale, orientamento, memoria, livello di informazione, livello di intelligenza generale, capacità di astrazione e interpretazione e giudizio.

    Quando l’atteggiamento è espresso verbalmente a se stessi oppure ad altri da se, si formalizza in una proposizione oggettiva che segue verbi come: credere, sperare, aspettarsi, desiderare.
    La proposizione oggettiva che esprime l’atteggiamento (in inglese propositional attitude) può seguire anche la formulazione “io penso che …”.

    Emanuele Fazio
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  • Filosofia della mente

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    Filosofia della mente

    Che cos’è la filosofia della mente

    Una definizione concisa ed esaustiva

    di Emanuele Fazio

    La filosofia della mente

    La filosofia della mente è quella branca della filosofia a cavallo tra filosofia teoretica e metafisica[1] che si domanda e cerca di dare una risposta circa la natura dei fenomeni mentali, cioè come si determinano e cosa li caratterizza, e ancora più in particolare si domanda e cerca di dare una risposta sul perché e in che modo tali fenomeni mentali entrano in contatto con il mondo fisico, soprattutto con quel particolare oggetto del mondo fisico che è il nostro corpo.

    Quali sono questi fenomeni mentali?

    I fenomeni mentali che indaga la filosofia della mente sono tanti e diversi.
    Una prima classificazione li può distinguere in fenomeni di carattere cognitivo e di carattere affettivo/emotivo.
    Ma per la filosofia della mente la maggior parte dei fenomeni mentali risultano essere una combinazione di questi due caratteri.
    Alcuni esempi di fenomeni mentali sono: la percezione (soprattutto visiva, ma anche quella che ci deriva dagli altri sensi), l’attenzione, i vari stati di coscienza, la rappresentazione mentale di oggetti concreti oppure astratti, la conoscenza, le varie forme di apprendimento, la memoria, l’esperienza, la decisione, la risoluzione dei problemi, la comunicazione (anche attraverso il linguaggio), la motivazione e le emozioni.

    [1] La metafisica è quella branca della filosofia che si occupa di tutte quelle questioni che non possono essere spiegate dalla fisica, la filosofia della natura (philosophiae naturalis).
    Come tale, è considerata la branca più astratta e speculativa – non empirica – della filosofia.
    Il primo a occuparsi di metafisica fu Platone, che postulò una forma di realtà non materiale, quindi ideale o idealizzata – pertanto metafisica – che contribuisse a spiegare e dare conto della realtà fisica: il mondo iperuranio delle idee.
    Le questioni che non riescono ad essere interamente spiegate dalla fisica sono oggi quelle che attengono la mente, lo spirito, i principi astratti ed alcune attinenti il mondo fisico, in particolare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, nonostante i passi da gigante compiuti grazie alla fisica quantistica e alle due leggi sulla relatività di Einstein.

    Emanuele Fazio
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  • Il programma terapeutico DBT

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    DBT Skills Training

    I quattro moduli del DBT Skills Training

    di Emanuele Fazio

    Il programma terapeutico DBT prevede quattro moduli:

    • gruppo di formazione sulle Skill DBT;
    • terapia psicologica individuale;
    • coaching telefonico;
    • gruppo di formazione avanzato.

    Sulla base di una sessione di valutazione iniziale, il programma terapeutico DBT sviluppa un piano di trattamento personalizzato per affrontare gli obiettivi e le esigenze specifiche di ogni cliente.

    Gruppo di formazione sulle Skill DBT

    Il mio principale obiettivo terapeutico è quello di insegnarti a sviluppare abilità per aumentare la tua capacità di controllare i tuoi pensieri, le tue emozioni e i tuoi comportamenti.
    Queste abilità sono insegnate in sessioni di gruppo, con incontri settimanali di circa 90 minuti.
    Sono in genere disponibili diversi gruppi per soddisfare le esigenze di pianificazione e per mantenere gruppi di dimensioni ridotte.
    Si può anche partecipare solamente al gruppo di formazione.

    Terapia psicologica di sostegno, abilitazione/riabilitazione individuale

    Poiché nel gruppo di formazione l’attenzione è posta sull’apprendimento delle Skill DBT, le sessioni individuali sono il luogo in cui avrai l’opportunità di affrontare più direttamente i problemi che ti riguardano personalmente.
    Lavoreremo assieme per affrontare i problemi che stanno causando disagio nella tua vita, oltre ad aiutarti per costruire una vita che sia più soddisfacente e appagante.
    Le sessioni individuali avvengono in genere con cadenza settimanale e per la durata di 45 minuti circa, anche se ciò sarà determinato in base al piano di trattamento individuale del cliente.

    Coaching telefonico

    Poiché non possiamo pianificare in anticipo ogni problema che potrebbe manifestarsi, ai clienti viene offerta la possibilità di telefonare per un coaching telefonico istantaneo.
    Con il coaching telefonico istantaneo, avrai l’opportunità di ottenere i giusti suggerimenti in tempo reale, in modo da poter affrontare efficacemente eventuali difficoltà che sorgono tra una sessione e l’altra.

    Gruppo di formazione avanzato

    Poiché molti clienti desiderano continuare a lavorare sulle loro Skill DBT anche dopo aver completato il gruppo di formazione, nel programma terapeutico DBT è disponibile un gruppo di formazione avanzato opzionale.
    Questo gruppo ha una struttura meno formale rispetto al gruppo di formazione di base, poiché l’agenda del gruppo è determinata in base alle esigenze dei membri specifici del gruppo.
    I membri del gruppo di formazione avanzato lavorano quindi insieme tra di loro e con il leader del gruppo per aiutare a sviluppare strategie e soluzioni ai problemi discussi. Il gruppo di formazione avanzato si riunisce per 90 minuti ogni due settimane.

    Emanuele Fazio
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  • Marsha Linehan e la Terapia Dialettico Comportamentale

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    DBT Skills Training

    Marsha Linehan e la terapia dialettico comportamentale

    Breve storia del trattamento DBT

    di Emanuele Fazio

    Marsha Linehan e la terapia dialettico comportamentale

    La terapia dialettica comportamentale (DBT, acronimo di Dialectical Behavior Therapy) è un trattamento psicoterapeutico originariamente sviluppato dalla psicologa statunitense Marsha Linehan tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90.

    Il tutto nasce da un’esperienza personale: Linehan, tra i diciotto e i vent’anni di età, rimase per 26 mesi consecutivi internata in una casa di cura privata per pazienti affetti da disturbi psichiatrici gravi, ricevendo una diagnosi di schizofrenia. Oltre alla circostanza della diagnosi rivelatasi poi errata, nessuna delle cure somministratele sembrava sortire l’effetto sperato. La remissione dei sintomi avvenne in modo quasi spontaneo, agevolata dalla forza di volontà di Linehan che giurò a se stessa e al mondo che sarebbe uscita da quella condizione e avrebbe aiutato gli altri a fare lo stesso, sebbene a quei tempi non avesse ancora ben chiaro il proprio percorso di vita.

    Successivamente intraprese la carriera universitaria, dapprima laureandosi, poi diventando ricercatrice e infine docente, oltre che clinica praticante. Come promesso, Linehan si interessò da subito a studiare e curare pazienti di genere femminile afflitte da ideazione suicidaria cronica e autolesionismo non suicidario, la maggior parte delle quali con disturbo borderline della personalità.

    Emanuele Fazio
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    Gli esordi della terapia dialettico comportamentale

    La terapia inizialmente somministrata da Marsha Linehan era quella comportamentale, sulla quale si era formata. Tuttavia, Linehan notò che la maggior parte delle pazienti che aveva in cura virava piuttosto rapidamente verso una resistenza al trattamento, e al conseguente abbandono della terapia.

    Ne dedusse, attraverso l’utilizzo di riprese attraverso lo specchio unidirezionale e l’analisi delle sedute, che agire direttamente sul cambiamento del comportamento considerato disfunzionale era vissuto dai pazienti come invalidante. Una prima variazione rispetto al modello standard della terapia comportamentale fu l’introduzione del concetto di accettazione e dei suoi corollari applicativi, influenzata dal lavoro che Steven Hayes stava portando avanti, lavoro che culminerà con l’elaborazione della terapia dell’accettazione e dell’impegno.

    L’aggiunta di strategie di accettazione, secondo Linehan, avrebbero aiutato i pazienti a sentirsi più compresi, il che a sua volta avrebbe contribuito a migliorare la relazione con i terapeuti e a facilitare i loro progressi.

    Tuttavia, Linehan notò che focalizzandosi maggiormente sull’accettazione, molti pazienti continuavano a non rispondere alla terapia.

    L’intuizione fu pertanto quella di sviluppare un’azione terapeutica che integrasse strategie di accettazione e strategie di cambiamento, che Linehan definì dialettica.

    Come ben spiega Paolo Migone: “l’approccio dialettico della Linehan è il seguente: siamo d’accordo sul fatto che il paziente deve cambiare e che noi dobbiamo indurlo a cambiare […] ma questa è solo una faccia della medaglia, in realtà esiste anche il paziente che non può o non vuole cambiare, e questo paziente va comunque compreso, capito, accettato, “validato” emotivamente […].  [U]n buon terapeuta deve essere capace di fare simultaneamente due cose che sembrano opposte: spingere il paziente verso il cambiamento, e anche accettarlo quando non riesce a cambiare”.

    Nel 1993 Linehan pubblica Cognitive-Behavioral Treatment of Borderline Personality Disorder (tradotto e pubblicato in Italia nel 2021, a cura di Lavinia Barone, con il titolo Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline – Il modello DBT), che presenta al grande pubblico gli assunti teorici e metodologici fondamentali dell’approccio.

    Da notare che il titolo non fa ancora menzione esplicita della parola dialectical. Del resto, come la stessa Marsha Linehan ci informa, la terapia (o programma terapeutico) è in prima istanza la risultante dell’applicazione di strategie utilizzate nella terapia cognitiva e nella terapia comportamentale, e finalizzate alla modifica cognitiva e alla modifica comportamentale.

    La DBT è di fatto un interessante mix di teorie e metodi mutuati o ispirati da diversi approcci, tra cui appunto il cognitivo-comportamentale, ma anche la terapia centrata sulla persona di Carl Rogers, la gestalt, la psicologia dinamica, l’approccio sistemico relazionale nonché la pratica della mindfulness e la filosofia dialettica, quest’ultima ispirata dalle concettualizzazioni di Karl Marx.

    L’innovazione della Linehan è quella di puntare direttamente alla modifica emotiva, più precisamente attraverso la regolazione dell’espressione emotiva. L’assunto teorico è che l’incapacità di regolare efficacemente e efficientemente le emozioni, assieme ad una vulnerabilità in gran parte biologica ma anche parzialmente appresa durante lo sviluppo tra l’infanzia e l’adolescenza, determina[1] sia la disregolazione comportamentale che quella cognitiva.

    Si ritiene che le irregolarità biologiche nel temperamento e nel controllo degli impulsi portino alla vulnerabilità emotiva, caratterizzata da un’elevata sensibilità agli stimoli emotivi, un’elevata intensità emotiva e un lento ritorno alla linea di base emotiva.

    La vulnerabilità emotiva è caratterizzata da una elevata sensibilità agli stimoli, siano essi oggettivamente o soggettivamente emotigeni, generalmente precorritrice di un’espressione particolarmente intensa dell’emozione sia fisiologica (asse ipotalamo-ipofisi-surrene, sistema nervoso autonomo simpatico) che psico-motoria (espressione facciale o altre manifestazioni) ma soprattutto dal forte ritardo a ritornare ad una situazione di equilibrio e controllo, anche quando la stimolazione emotigena cessa o riduce il suo effetto attivante.

    L’assunto teorico delle terapie ricadenti nell’ambito più strettamente cognitivo-comportamentale è invece quello che la disregolazione cognitiva in primis e la disregolazione comportamentale in secundis determinano la disregolazione sia emotiva che comportamentale. Per effetto della causalità circolare, si determina un processo di disregolazione reciproca e pertanto un avvitamento a spirale dell’intensità di ciascuna espressione emotiva, comportamentale e cognitiva, e quindi la patologia. Questo effetto è contemplato in entrambi gli approcci appena detti (e in molti altri): la differenza consiste semplicemente su quale fattore (cognitivo, comportamentale o emotivo) intervenire in primo luogo e ancora più specificatamente in quale sotto-fattore. Torneremo successivamente su questa importante specificazione

    Le espressioni comportamentali disfunzionali osservate in pazienti (o che i pazienti osservano in sé stessi) con disregolazione emotiva, sono: eccesso di disforia e/o di euforia, sentirsi insignificanti e privi di scopi e/o obiettivi, manifestazioni incontrollate di rabbia, paura, ansia, gioia, vergogna e molte altre emozioni sia primarie che secondarie.

    Per il modello della DBT, la regolazione emotiva avviene per mezzo di diverse tecniche, insegnate ai pazienti, come ad esempio:

    • comprendere e dare il nome esatto alle proprie emozioni;
    • modificare il comportamento che è guidato esclusivamente o quasi dall’emozione, quindi quello impulsivo;
    • ridurre la vulnerabilità individuale di fronte all’emergere delle emozioni;
    • imparare a gestire le emozioni intense, in particolare quelle negative.

    La scelta della tecnica o delle tecniche più appropriate è funzione della scelta di quale sotto-settore previlegiare nell’intervento, e rappresenta la risultante di una rigorosa analisi del caso.

    [1] in primis su persone con personalità borderline ma ad oggi il modello è applicato a diverse popolazioni sia cliniche che non cliniche

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    Aggressività

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    di Emanuele Fazio

    Aggressività

    L’aggressività è una tendenza verso la dominanza sociale, attuata per il mezzo di atteggiamenti e comportamenti minacciosi e ostilità manifesta. Può verificarsi sporadicamente oppure essere un tratto caratteristico dell’individuo. Vi sono due tipi di aggressività: quella reattiva e quella proattiva. Nel primo caso il soggetto difende ciò che ha (un oggetto saliente concreto oppure astratto) oppure il suo progetto ad avere quel tale oggetto. Nel secondo caso attacca l’oggetto saliente che non ha: di fatto il suo progetto è di natura esclusivamente predatoria. L’attacco può essere diretto al possessore dell’oggetto (l’ambiente è un possibile possessore) e il possessore spesso incorpora l’oggetto.

    Emanuele Fazio
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    Aggressività e catarsi

    Gli studi che si sono occupati di distinguere tra aggressività intesa come impulso versus aggressività intesa come risposta socialmente appresa, si focalizzano spesso sul concetto di catarsi, o purificazione da una emozione attraverso l’esperienza intensa oppure completa di essa.

    Se l’aggressione fosse un impulso, la sua libera espressione dovrebbe svolgere una funzione catartica, e produrre una riduzione dell’intensità dell’emozione rabbia e la cessazione dell’azione aggressiva (analogamente al fatto che se mangiamo, riduciamo il senso di fame e cessiamo il comportamento di ricerca del cibo).

    L’ipotesi social-cognitiva postula che l’aggressione è una risposta appresa, e pertanto esprimere aggressività diventa un comportamento operante, specie se rinforzato.

    La ricerca ha evidenziato più dati a sostegno dell’ipotesi social-cognitiva.

    Gli psicologi hanno condotto numerosi studi di laboratorio per determinare se l’aggressività diminuisce una volta che è stata parzialmente espressa.
    Gli studi sui bambini indicano che la partecipazione ad attività aggressive aumenta il comportamento aggressivo o lo mantiene allo stesso livello.
    Gli esperimenti con gli adulti producono risultati simili.
    Quando vengono date ripetute opportunità di punire un’altra persona (che non può vendicarsi), gli studenti universitari diventano sempre più punitivi.
    I partecipanti che sono arrabbiati diventano ancora più punitivi negli attacchi successivi rispetto ai partecipanti che non sono arrabbiati.
    Se l’aggressività fosse catartica, i partecipanti arrabbiati dovrebbero ridurre la loro spinta aggressiva quando agiscono in modo aggressivo.

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  • Il modello delle emozioni di Frijda e Lazarus

    Il modello delle emozioni di Frijda e Lazarus

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    Il modello delle emozioni di Frijda e Lazarus

    Per saperne di più

    di Emanuele Fazio

    Il modello delle emozioni di Frijda e Lazarus

    In un precedente articolo, ho parlato del rapporto tra emozione e motivazione. Ho inoltre accennato al modello di Frijda e Lazarus, sostenendo che l’emozione è un fenomeno complesso e formato da diverse componenti; l’emozione attiva e guida uno o più comportamenti (sia motori che mentali). Secondo Frijda e Lazarus, ogni singola emozione consta di almeno sei componenti. La sequenza con cui queste componenti si dispiegano varia a seconda del modello teorico postulato.

    Mi limito per adesso ad elencarle senza attribuire sequenzialità. Iniziamo dalla prima componente: la valutazione cognitiva (cognitive appraisal).

    Emanuele Fazio
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    Il modello delle emozioni di Frijda e Lazarus

    La teoria della valutazione cognitiva (proposta da Richard Lazarus), postula che alla base di ogni emozione vi sia una valutazione cognitiva. Tale valutazione è composta da due fasi, una valutazione primaria e una valutazione secondaria. Pertanto i processi cognitivi (specialmente quelli che sono reclutati per la valutazione) sono un elemento fondante dell’emozione propriamente detta. Gli altri due processi coinvolti, sempre secondo il modello proposto da Lazarus, sono il processo motivazionale prima spiegato e un processo chiamato relazionale che attiene la salienza attribuita in prima istanza (quindi prima ancora che il processo cognitivo si attivi), che si misura in valenza (positiva oppure negativa) e intensità (vari gradi di intensità).

    Quindi la prima componente è cognitiva ed è chiamata valutazione cognitiva. Accade qualcosa nell’ambiente o nella particolare relazione che lega l’uomo al suo ambiente per cui l’uomo valuta che qualcosa sta accedendo e che merita attenzione. Si tratta di una componente di cui non abbiamo totale consapevolezza che si sta dispiegando.

    La seconda componente è detta dell’esperienza soggettiva e di cui abbiamo maggiore consapevolezza cosciente: alla valutazione cognitiva (in gran parte automatica sebbene consapevole) si aggiunge l’esperienza cosciente che si sta provando un’emozione. O meglio, percepisco attraverso i sensi interni che sto provando una emozione, attraverso due dimensioni: la tonalità affettiva (positiva, negativa oppure un mix di entrambe) e l’intensità.

    La terza componente coinvolge ancora i sensi interni: è la propriocezione di una spinta ad agire o a pensare in funzione delle due componenti prima dette. Ad esempio propriocepisco che c’è qualcosa di saliente attorno a me, che mi sta stimolando emozione e che mi spinge a fare o pensare. Comprende l’intenzione e/o la pulsione (e il suo relativo grado di controllo) ad agire. Oltre quindi ad una reattività fisiologica che coinvolge il sistema nervoso autonomo (simpatico), e che costituisce la quarta componente, si avverte, e sempre per il tramite dei sensi interni, la reattività motoria nonché la spinta reattiva del sistema parasimpatico (l’altra metà del sistema nervoso autonomo).

    La quarta componente, come già anticipato, è la reazione fisiologica, che parte dal sistema nervoso autonomo (sistema simpatico) e procede con l’attivazione dell’asse HPA.

    La quinta componente è l’espressione facciale. Si tratta di una primissima forma di risposta muscolare e può essere reattiva oppure mediata.

    L’ultima componente è la risposta vera e propria all’emozione, che può essere reattiva oppure mediata (strategia di coping). È come se l’impeto energetico scatenato fosse lasciato libero di fluire dopo aver sistemato alcuni argini e sbarramenti idonei a canalizzarlo verso un’azione la più efficace possibile.

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    Emozione e motivazione

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    di Emanuele Fazio

    Emozione e motivazione

    Emozione e motivazione sono due facce della stessa medaglia.
    Le emozioni canalizzano energia allo stesso modo delle motivazioni (si tratta in entrambi i casi di drive, che in inglese possiamo tradurre come impulso, spinta).
    Spesso emozioni e motivazioni coesistono in questa canalizzazione. Fare sesso non è soltanto l’esecuzione meccanica imposta geneticamente dalla specie (ciò che Freud chiamò libido), ma anche una fonte di emozioni, come il piacere (e a volte anche di vergogna e senso di colpa).

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Quindi sia le motivazioni che le emozioni attivano e guidano determinati comportamenti, generalmente specie-specifici. Si tratta di comportamenti semplici oppure complessi, formati da azione e/o pensiero, di natura istintiva o razionalmente mediata, ma sempre finalizzati, con intenzionalità rivolta verso l’esterno (tipica nei comportamenti di attacco) oppure verso l’interno (tipica nei comportamenti di evitamento e fuga).

    Abbiamo appena detto delle similarità, ma vediamo le differenze. Gli schemi emotivi, quasi alla guisa delle vecchie schede perforate che si utilizzavano con i primi computer, si attivano automaticamente, in risposta a stimoli (che coinvolgo i tradizionali cinque sensi) che provengono dall’esterno mentre gli schemi motivazionali si attivano in risposta a stimoli (spesso di natura propriocettiva, enterocettiva o vestibolare) che provengono dall’interno. Quindi le emozioni si dispiegano a causa della presenza di un sintomo saliente collocato all’esterno e l’intenzionalità è diretta verso il sintomo saliente mentre la motivazione si dispiega a causa della presenza di un sintomo saliente collocato all’interno e l’intenzionalità è diretta verso un secondo stimolo (o oggetto) che è in grado di ridurre la tensione emotiva (ecco perché emozione e motivazione spesso coesistono) generata dalla mancanza o dalla difficoltà a reperire l’oggetto prima detto. L’oggetto è in genere cibo, acqua, protezione, partner ed altro ancora.

    Ecco quindi che le motivazioni sono elicitate da stimoli prevedibili o riconducibili ad essi, mentre le emozioni sono elicitate da una più ampia gamma di stimoli, per quanto molti di essi sono altrettanto prevedibili, ma non tutti.

    Un’emozione è un fenomeno complesso e formato da diverse componenti; l’emozione attiva e guida uno o più comportamenti (sia motori che mentali). Secondo alcuni autori (Frijda e Lazarus), ogni singola emozione consta di almeno sei componenti. La sequenza con cui queste componenti si dispiegano varia a seconda del modello teorico postulato.
    In un successivo articolo vedremo come questa sequenza si dispiega.

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    di Emanuele Fazio

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    Psicolinguistica

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    La psicolinguistica o psicologia del linguaggio è lo studio della relazione reciproca tra fenomeni linguistici e fenomeni psicologici.
    La psicolinguistica si occupa principalmente dei meccanismi strutturali e funzionali, attraverso i quali il linguaggio viene elaborato e rappresentato nella mente umana, considerando i fenomeni psicologici (individuali e sociali) neurobiologici e ambientali che consentono agli esseri umani di apprendere, usare, comprendere e produrre il linguaggio.


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    La psicolinguistica si occupa inoltre dei processi cognitivi necessari per produrre la struttura grammaticale del linguaggio.

    I primi studi

    I primi studi di psicolinguistica hanno riguardato aspetti più attinenti alla filosofia e alla pedagogia. Gli studi più recenti annoverano invece ambiti più estesi, come ad esempio biologia, neuroscienze, scienze cognitive, linguisticascienze della comunicazione.

    Inoltre, esistono ambiti a sé stanti, come ad esempio la neurolinguistica e la psicolinguistica dello sviluppo, quest’ultima orientata allo studio di come il bambino apprende ad utilizzare il linguaggio.

    In sostanza, la psicolinguistica e gli ambiti ad essa collegati studiano i processi coinvolti nell’acquisizione, comprensione e produzione del linguaggio.


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    La psicolinguistica suddivide ulteriormente i suoi studi in base alle diverse componenti che compongono il linguaggio umano.

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    La sintassi è lo studio di come le parole vengono combinate per formare frasi.

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    La semantica è lo studio del significato delle parole e delle frasi. Mentre la sintassi si occupa della struttura formale delle frasi, la semantica si occupa del significato effettivo delle frasi.

    Pragmatica

    La pragmatica si occupa del ruolo del contesto sociale nell’attribuzione di significato a parole e frasi.

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  • Angoscia

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    di Emanuele Fazio

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    Angoscia

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    Angoscia, dal latino angustia, traducibile in inglese con il termine anguish (se riferito al concetto filosofico) oppure distress o emotional distress (se riferito al concetto psicologico), significa una eccessiva tristezza determinata da cause di natura fisica oppure mentale.

    Il sentimento di angoscia, poiché trattasi di sentimento, è generalmente preceduto da un evento infausto o considerato tale da chi lo subisce.

    L’angoscia può determinare uno stato di malessere, acuto oppure cronico o quantomeno duraturo) che la persona percepisce sia fisicamente che mentalmente.


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    In filosofia

    In filosofia, l’angoscia è un concetto presente soprattutto nell’esistenzialismo e fa riferimento, nell’esperienza umana, alla assoluta mancanza di alcun motivo oggettivo per l’azione, abbastanza simile ma non sovrapponibile al concetto di nichilismo.

    Per Søren Kierkegaard, l’angoscia è quel sentimento che pervade l’essere umano, in quanto alla sua idea di libero arbitrio, inteso come la libertà di poter disporre liberamente del mondo, si contrappone l’idea terrificante che proprio questa libertà illimitata può condurre alla catastrofe dell’intera umanità.

    Un concetto molto simile a quello di ansia climatica (climate anxiety), che consiste nell’ aumento del disagio emotivo, mentale o somatico in risposta ai pericolosi cambiamenti climatici.

    In psicologia

    In ambito più prettamente psicologico, l’angoscia è sinonimo di paura, stress, ansia panico.


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  • Affetto, emozione e sentimento

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    affetto emozione sentimento

    di Emanuele Fazio

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    Affetto, emozione e sentimento

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    Prima di parlare di affetto, emozione e sentimento, diciamo due parole sulla soggettività.

    La soggettività

    La soggettività è la naturale propensione di ciascun essere umano a elaborare (anche se spesso in modo inconsapevole o parzialmente inconsapevole), in modalità seriale oppure parallela (o in entrambi i modi) i dati ricavati dal suo essere al mondo assieme alle proprie emozioni, affetti, credenze, esperienze, opinioni, sentimenti.

    Tra i maggiori limiti che si riscontrano in letteratura, vi è quello relativo ad una frequente mancata distinzione tra i lemmi sopra riportati.
    In particolare, tra affetto, emozione e sentimento.

    Il ruolo dell’ascoltatore

    La capacità dell’ascoltatore di cogliere l’esatto significato che un parlante intende esprimere attraverso l’uso di un lemma è fondamentale per la costruzione di una buona pragmatica della comunicazione.

    Ogni espressione linguistica – un paralinguismo, una parola, una frase, un discorso – in quanto atto linguistico, si determina in funzione di altri fenomeni, come ad esempio gli stati mentali.
    Esempi di stati mentali sono le intenzioni, i desideri, le credenze, le emozioni del parlante. Ovviamente entrano in gioco anche gli stati mentali dell’ascoltatore, quantomeno nella forma in cui il parlante se li rappresenta.


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    Entriamo nel dettaglio di affetto, emozione e sentimento

    L’affetto

    Secondo l’American Psychological Association (APA), per affetto si intende qualsiasi esperienza emotiva, dall’euforia alla disforia, con qualunque grado di intensità e di polarità.
    L’ affetto è una delle tre componenti del modello tradizionale della mente, assieme alla cognizione e al comportamento.

    Secondo Shouse[1], l’affetto è il grado di intensità, il volume sonoro dell’esperienza.
    È ciò che permette di sentire un’emozione.
    Se la mente fosse un impianto Hi-Fi, l’affetto sarebbe l’amplificatore.
    L’affetto è quindi il contenitore e non il contenuto (che sarebbe invece l’emozione).

    È il significante e non il significato (che sarebbe invece il sentimento).

    Per far ciò sono necessari, secondo Shouse, un uso appropriato del linguaggio – per dare un nome all’esperienza emotigena[2] – e una memoria biografica, da cui attingere per centrare al meglio la definizione.

    Per questa ragione i bambini piccoli non provano emozioni ma esprimono reazioni affettive in funzione dell’intensità dello stimolo ricevuto.
    Nello startle reflex, o startle response, la risposta di allarme è una risposta difensiva in gran parte inconscia a stimoli improvvisi e intensi, prudentemente etichettati come minacciosi, e caratterizzati da rumori improvvisi o movimenti bruschi.
    Tale reazione è caratterizzata da affettività negativa[3].

    Seguendo l’assunto che l’ontogenesi riassume la filogenesi, l’affetto ha preceduto da un punto di vista evolutivo l’emozione, senza tuttavia estinguersi ma ricollocandosi all’interno del sistema individuo con nuove funzionalità, tra cui appunto quella di far sentire un’emozione, assieme alla attribuzione automatica di un valore di positività oppure di negatività[4].

     


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    Affetto, emozione e sentimento

    Il sentimento (in inglese feeling).

    In questo articolo su affetto, emozione e sentimento sono passato direttamente a sentimento in quanto ho trattato l’emozione (o le emozioni) in quest’altro articolo.

    La differenza tra feeling e emotion (che possiamo tradurre rispettivamente in sentimento ed emozione) è pressoché nulla in psicologia ingenua – i due termini sono usati intercambiabilmente e quindi sono sinonimi.
    Nella psicologia accademica non sempre abbiamo una distinzione tra i due termini oppure abbiamo distinzioni non ampiamente condivise.

    Sappiamo che le emozioni sono reazioni bio-regolatorie che mirano a promuovere, direttamente o indirettamente, il tipo o i tipi di stati fisiologici che assicurano sopravvivenza e benessere[5].

    Ma come si dispiegano queste reazioni bio-regolatorie?

    Si tratta di un sistema predeterminato di attività elettrochimiche a livello neuronale ed endocrino, che coinvolgono quindi rispettivamente neurotrasmettitori e ormoni e che il nostro cervello attiva non appena rileva la presenza di uno stimolo emotigeno significativo.
    Le attività elettrochimiche neuroendocrine si avviano in automatico, sia che la rilevazione della presenza dello stimolo emotigeno avvenga consapevolmente o inconsapevolmente.

    Anche l’attribuzione di significatività (o salienza) avviene in automatico e recluta informazioni che sono immagazzinate in memoria.

    Il processo di associazione o apprendimento

    In memoria ci sono rappresentazioni di stimoli emotigeni che l’evoluzione ha selezionato come significativi – associazione stimolo/significatività innata – ed anche rappresentazioni di stimoli emotigeni che l’esperienza ontogenetica ha selezionato come altrettanto significativi – associazione stimolo/significatività appresa.
    A questo processo di associazione (apprendimento) partecipano anche comportamenti – come l’attacco o la fuga – e l’espressione, soprattutto facciale, che comunica a sé e agli altri il tipo di emozione provata.

    Nel sapiens l’associazione prosegue con il recupero in memoria della definizione linguistica.

    La significatività degli stimoli emotigeni, siano essi innati che appresi, può tuttavia essere mediata/moderata dall’esperienza.
    Alla significatività è pertanto possibile attribuire un valore, non di tipo dicotomico bensì dimensionale.
    La significatività può essere mediata/moderata anche da caratteristiche del contesto.

    I sentimenti (feelings) sono la percezione cosciente di uno stato emotivo

    Quindi: uno stimolo emotigeno esterno NON CONSAPEVOLE oppure interno NON CONSAPEVOLE produce una risposta fisica AUTOMATICA E NON CONSAPEVOLE da parte del nostro organismo.
    Lo stato fisico (e che quindi non è ancora uno stato mentale[6]) prodotto dalla risposta fisica allo stimolo emotigeno (uno stato fisico che è diverso dallo stato fisico precedente al verificarsi del fenomeno stimolo emotigeno) è percepito CONSAPEVOLMENTE dalla nostra mente.

    Più precisamente la nostra mente percepisce il cambiamento di stato.

    Perché non percepiamo consapevolmente lo stato fisico prodottosi a seguito dello stimolo emotigeno?

    Poiché lo stato fisico in sé non ci informa di nulla, in quanto sappiamo che tale stato è identico QUALUNQUE SIA LO STIMOLO EMOTIGENO.

    Noi percepiamo il cambio di stato e mentalmente inferiamo la presenza di uno stimolo emotigeno.

    Lo stato fisico che si produce attiva in automatico la risposta motoria – ad esempio scappare oppure attaccare ma anche stare all’erta oppure provare ad avvicinarsi.

    A questo punto noi percepiamo ANCHE la risposta motoria.

    Il sentimento inizia a prendere forma

    Adesso disponiamo consapevolmente delle seguenti informazioni: c’è uno stimolo emotigeno e questo stimolo emotigeno determina una reazione motoria, ad esempio fuga.
    Possiamo inferire che si tratti di paura.
    La conferma consapevole che si tratti di paura ci può derivare dallo stimolo emotigeno, che adesso siamo in grado di individuare all’interno del campo fenomenico.

    Noi di fatto ricerchiamo attivamente uno stimolo emotigeno che sia compatibile con l’emozione paura.

    Se nel campo fenomenico osservassimo tre cose: un albero, un altro individuo e una tigre, assoceremmo quest’ultima alla nostra emozione di paura – la tigre è stimolo emotigeno sufficiente per provare paura.
    Nel caso osservassimo un albero, un altro individuo e un televisore, molto probabilmente assoceremmo l’altro individuo alla paura.
    Infine, nel caso di un albero, un televisore e una chitarra, il nostro istinto di fuga verrebbe inibito oppure rallentato, in quanto non avrebbe rilevato uno stimolo emotigeno che abitualmente assoceremmo alla paura.

    L’emozione è pertanto un insieme non casuale di reazioni neurobiochimiche e attività elettrica neuronale che il nostro cervello produce non appena rileva la presenza – tale o presunta – di uno stimolo non indifferente[7]. La sequenza affetto, emozione e sentimento è il fenomeno che include tanti sotto-fenomeni, tra cui per l’appunto affetti, emozioni e sentimenti.

    In conclusione

    Tali reazioni neurobiochimiche – come possono essere la sintesi del CRH, dell’ACTH, dei vari glucocorticoidi e delle catecolamine e successivamente il legame di questi ultimi due con i recettori e la sintesi proteica che ne scaturisce – determinano cambiamenti fisiologici generali che preparano il corpo a lottare oppure a fuggire.
    In funzione di alcune attività di tipo muscolare, come ad esempio l’aumento del battito cardiaco, l’aumento della pressione sanguigna e altre attività riconducibili all’attivazione del sistema simpatico, il soggetto ha coscienza o consapevolezza di tali attività ed in particolare del fatto che tali attività sono subentrate ad una condizione di non attività oppure che l’intensità di tali attività è aumentata oppure diminuita rispetto ad una condizione di attività precedente.

    Tale coscienza o consapevolezza è quella che Antonio Damasio chiama sentimento (feeling).

    È pertanto possibile che affetto, emozione e sentimento sono fenomeni a sé stanti e che sono apparsi durante il processo evolutivo con questa esatta sequenza.

    Note

    [1] Shouse, E. (2005). Feeling, Emotion, Affect. M/C Journal8(6). https://doi.org/10.5204/mcj.2443

    [2] Con il lemma emotigeno si intende qualunque cosa, materiale oppure astratta, in grado di attivare la risposta emotiva. In inglese è detto stressor.

    [3] Ramirez-Moreno, David. “A computational model for the modulation of the prepulse inhibition of the acoustic startle reflex”. Biological Cybernetics, 2012, p. 169

    [4] P. A. Thoits, “The sociology of emotions”, Annu. Rev. Sociology, vol. 15, pp. 317-342, 1989.

    [5] Il concetto di benessere va oltre il mero concetto di sopravvivenza, ma naturalmente senza escluderlo.

    [6] In questo articolo parlo della differenza tra stati mentali e stati fisici, di fatto una non differenza, in quanto li ritengo la stessa cosa ma linguisticamente rappresentati da definizioni diverse.

    [7] Con stimolo non indifferente possiamo indicare qualunque oggetto concreto oppure astratto che rappresenta per il soggetto una minaccia oppure una risorsa.

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    Gli attacchi di panico sono fenomeni periodici che si verificano all’improvviso e senza una apparente causa scatenante.
    La persona inizia ad avvertire una forte apprensione, che si trasforma presto in paura, come se un pericolo reale si stesse manifestando sotto i suoi occhi (invece non sta accadendo nulla).
    Sono altresì presenti sintomi fisici, come palpitazioni cardiache, difficoltà respiratorie, dolore o disagio toracico, sensazioni di soffocamento, sudorazione eccessiva e vertigini.

    L’attacco si verifica in un periodo di tempo circoscritto e spesso determina ulteriori sentimenti, come paura di impazzire, di perdere il controllo o di morire.

    Possono verificarsi in una condizione già alterata da una patologia, come i disturbi d’ansia, altri disturbi mentali (ad esempio, disturbi dell’umore, disturbi correlati a sostanze) e in alcune condizioni mediche generali (ad esempio, ipertiroidismo).


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    Il disturbo può essere accompagnato in alcuni casi da agorafobia, determinando di fatto due diagnosi distinte.
    Molti biologici ritengono che gli attacchi di panico siano causati dalla iperattività del cosiddetto circuito della paura, un circuito cerebrale che include nuclei come l’amigdala, l’ippocampo, il nucleo ventro-mediale dell’ipotalamo, la materia grigia centrale e il locus coeruleus.

    Gli psichiatri prescrivono farmaci antidepressivi o benzodiazepine per trattare le persone con questo disturbo.

    La teoria cognitivo-comportamentali postula che le persone inclini agli attacchi di panico si preoccupano eccessivamente di alcune loro sensazioni corporee, interpretandole erroneamente come sintomi di un’acuzie (ad esempio un infarto in corso).
    I terapisti cognitivo-comportamentali fanno sì che i clienti apprendano a interpretare le loro sensazioni fisiche in modo meno catastrofico.


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    La probabilità condizionata

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    di Emanuele Fazio

    La probabilità condizionata

    In un parco pubblico, io e il mio amico Brando incontriamo il sig. Rossi che passeggia assieme a un ragazzo.
    Dopo averlo salutato e esserci allontanati, il mio amico Brando mi propone il seguente rompicapo:

    il sig. Rossi ha due figli. Quante probabilità ci sono che anche l’altro figlio sia maschio, dato che uno dei due, come abbiamo visto, è maschio

    Stiamo parlando della probabilità condizionata, cioè della probabilità che un dato evento che chiamiamo B si verifichi (nel nostro caso l’evento B è anche l’altro figlio sia maschio) in funzione del fatto che un altro evento che chiamiamo A e ad esso collegato si sia verificato (come nel caso nostro) o che si possa verificare. L’evento A è uno dei due è maschio.
    L’evento B è detto evento condizionato, mentre l’evento A è detto evento condizionante.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    La probabilità condizionata spiegata passo dopo passo
    Quindi, riformulando la domanda di Brando, diremo:

    Quante probabilità ci sono che si verifichi l’evento B, dopo che si è verificato l’evento A?

    Prima di provare a risolvere il rompicapo sulla probabilità condizionata del nostro amico Brando, facciamo un passo indietro, iniziando col dire che in natura, tutte le combinazioni possibili, dati due figli, sono le seguenti:

    maschio/maschio, maschio/femmina, femmina/maschio, femmina/femmina.

    Molto probabilmente, alcuni avranno invece pensato a qualcosa del genere:

    o sono entrambi maschi, o sono entrambe femmine, oppure sono maschio e femmina.

    Tuttavia, solo la prima formulazione è quella che ci aiuterà a risolvere il rompicapo, e cioè

    maschio/maschio, maschio/femmina, femmina/maschio, femmina/femmina.

    Ampliando questa formulazione, possiamo dire anche in questo modo:

    Quando si hanno due figli, si avrà un primogenito e un secondogenito (per i gemelli possiamo considerare chi viene alla luce per primo). Se indichiamo con il numero 1 il primogenito e con il numero 2 il secondogenito, le combinazioni possibili sono le seguenti:

    1 Maschio 2 Maschio
    1 Maschio 2 Femmina
    1 Femmina 2 Maschio
    1 Femmina 2 Femmina

    Facciamo un altro esempio
    Immaginiamo di avere due dadi (i due figli) e che il numero pari significhi maschio, mentre il numero dispari significhi femmina.

    Vediamo prima la differenza tra risultato e combinazione.

    Lanciando i dadi, posso ottenere 11 risultati: 2,3,4,5,6,7,8,9,10,11,12.

    Ma attenzione! Le combinazioni sono invece 36.

    Ecco le combinazioni, aiutandoci con una tabella:

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Capiamo meglio la differenza tra risultato combinazione con un esempio.
    Prendiamo il risultato 7. Lo posso ottenere con le seguenti combinazioni (il primo numero è il primo dado, il secondo numero è il secondo dado):

    1/6, 2/5, 3/4, 4/3, 5/2 e 6/1

    Ben sei combinazioni (su 36)!

    Vediamo il risultato 10.

    4/6, 5/5, 6/4

    Solo 3 combinazioni (su 36)

    Torniamo alla probabilità condizionata (tratteremo subito dopo anche il rompicapo)

    Avevamo supposto i due dadi essere i due figli e i risultati pari corrispondere a maschio mentre i dispari corrispondono a femmina.

    Quindi le combinazioni con due numeri pari corrispondono a due figli maschi, le combinazioni con due numeri dispari corrispondono a due figlie femmine e le rimanenti a maschio e femmina o femmina e maschio.
    Più precisamente, primo numero pari/secondo numero dispari corrisponde a maschio e femmina mentre primo numero dispari/secondo numero pari corrisponde a femmina e maschio.

    Iniziamo da due numeri pari (e che vedi sottolineati)

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono in tutto 9 (su 36).

    Passiamo a due numeri dispari

    Adesso, sottolineiamo due numeri dispari, corrispondenti a due figlie femmine.

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono di nuovo 9 (su 36).

    Passiamo a pari e dispari

    Vediamo adesso la combinazione maschio e femmina, rappresentata dal primo numero pari e dal secondo dispari.

    Secondo dado →

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Primo dado ↓

               

    1

    1/1

    1/2

    1/3

    1/4

    1/5

    1/6

    2

    2/1

    2/2

    2/3

    2/4

    2/5

    2/6

    3

    3/1

    3/2

    3/3

    3/4

    3/5

    3/6

    4

    4/1

    4/2

    4/3

    4/4

    4/5

    4/6

    5

    5/1

    5/2

    5/3

    5/4

    5/5

    5/6

    6

    6/1

    6/2

    6/3

    6/4

    6/5

    6/6

    Sono 9 (su 36).

    Inutile rubare spazio con la quarta tabella: è evidente che le combinazioni numero dispari/numero pari corrispondente a femmina e maschio sono di nuovo 9 su 36.

    9 su 36 significa 9 diviso 36, cioè ¼. In termini percentuali si può scrivere .25 oppure 25%.

    Abbiamo pertanto le seguenti probabilità, dati due figli:

    • entrambi sono maschi (25%)
    • entrambe sono femmine (25%)
    • il primo è maschio e la seconda è femmina (25%)
    • la prima è femmina e il secondo è maschio (25%).
    Passiamo adesso al rompicapo.

    Poiché almeno uno dei due figli è maschio, come abbiamo visto, una cosa a questo punto è certa: il sig. Rossi non ha due figlie femmine.
    Rimangono pertanto tre possibilità: entrambi maschi, il primo maschio e la seconda femmina e la prima femmina e il secondo maschio.
    Le combinazioni possibili viste in precedenza con l’ausilio delle tabelle, si riducono da 36 a 27, poiché dobbiamo eliminare le combinazioni primo numero dispari/secondo numero dispari, corrispondente a due figlie femmine.

    La combinazione maschio/maschio è pari a 9 su 27, pari a 1/3 o 33,33%, che è anche la soluzione al nostro rompicapo. Infatti, negli altri due casi possibili (maschio/femmina e femmina/maschio) l’altro figlio è sempre femmina, stante che uno è certamente maschio e che per esclusione l’altro non può essere che femmina. 

    Alcune importanti precisazioni sulla probabilità condizionata

    Poniamo il caso che quel giorno non avessimo incontrato il sig. Rossi e che Brando mi avesse posto la seguente domanda:

    Un mio conoscente, il sig. Rossi, ha due figli. Quante probabilità ci sono che siano entrambi maschi?

    In questo caso non si tratta di un problema di probabilità condizionata (o distribuzione di probabilità a posteriori) ma di un problema di distribuzione di probabilità a priori.

    Poiché a priori, cioè null’altro dato se non il puro dato statistico, la probabilità che dati due figli, entrambi siano maschi è pari al 25%, la risposta non può che essere questa.

    Un altro modo per risolvere il rompicapo è attraverso l’utilizzo della formula di Bayes, di cui parliamo in questo articolo.

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    La Piramide dei Bisogni di Abraham Maslow

    Teoria della motivazione umana

    di Emanuele Fazio

    Tra le conoscenze più diffuse in ambito psicologico ingenuo, quindi in particolare tra i non addetti ai lavori, si può annoverare la Piramide dei Bisogni di Abraham Maslow, detta anche Teoria della Motivazione Umana.

    Che cos’è la Motivazione

    Secondo l’Associazione Psicologica Americana, la motivazione è la forza che determina movimento e traiettoria verso l’ottenimento di un qualcosa, che può essere sia di natura concreta (ad esempio, del cibo) che di natura astratta (ad esempio, vedere un quadro di Caravaggio).
    In entrambi i casi, l’obiettivo è caratterizzato da uno scopo, cioè il raggiungimento di uno stato psicofisico di benessere con o senza preesistenza di uno stato psicofisico di malessere o disagio.
    Motivazione deriva dal latino motivus, sostantivazione da motus, participio passato di movere – in italiano muovere.

    L’esperienza soggettiva dei comportamenti, pensieri e/o emozioni associati ad un processo di tipo motivazionale, possono essere coscienti, non coscienti oppure un mix tra i due.
    Quanto appena detto implica che molto spesso l’essere umano agisce in funzione dell’ottenimento di un qualcosa, senza esserne cosciente, o senza esserne cosciente del tutto.

    I Bisogni Determinati da Carenza e i Metabisogni

    Nella Piramide dei Bisogni di Abraham Maslow, l’accento è posto sul fatto che l’essere umano ha certamente molti bisogni identici a quelli degli animali non umani.
    Assieme a questi bisogni che definiamo primari, e che Maslow definì bisogni determinati da carenza (deficiency needs), vi sarebbero bisogni di natura esclusivamente umana, che egli chiamò meta-bisogni. 
    Il soddisfacimento dei meta-bisogni dipenderebbe dall’attivazione della meta-motivazione.
    Questi meta-bisogni sono il bisogno di conoscenza (Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza – Dante Alighieri, XXVI canto dell’Inferno, v. 118-120), il bisogno di valori estetici[1], il bisogno di realizzare pienamente e in modo soddisfacente il proprio potenziale (bisogno di autorealizzazione) ed infine il bisogno di provare un esperienza di picco[2] (peak experience).

    Tra i bisogni determinati da carenza e i meta-bisogni, ve ne sono alcuni che si collocano a metà strada tra i bisogni animali e quelli non umani, come ad esempio il bisogno di avere un ruolo sociale (appartenenza e consenso) e il bisogno di ricevere uno status sociale (stima e riconoscimento).

    Il Soddisfacimento Gerarchico dei Bisogni

    Per concludere, Maslow propose che i bisogni umani, di qualunque tipo essi siano, fossero disposti gerarchicamente, con alla base i bisogni primari e in vetta i meta-bisogni.
    Prima di soddisfare i meta-bisogni, l’essere umano ha necessità di soddisfare, anche parzialmente, i bisogni primari.
    E poi in successione ascendente tutti gli altri.
    Appare evidente che un soggetto costantemente impegnato a soddisfare bisogni determinati da carenza, non trovi poi il tempo oppure non avverta il bisogno di soddisfare i meta-bisogni.
    L’arte e la scienza non si sviluppano in quei contesti dove le persone devono lottare per ottenere cibo, sicurezza e, come vedremo in un successivo articolo, appartenenza.
    L’autorealizzazione, il bisogno più elevato che un essere umano può avere, necessita della soddisfazione di tutti i bisogni che gerarchicamente lo precedono.

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    [1] Il valore estetico è la qualità che un oggetto (un’opera d’arte oppure l’ambiente naturale) possiede in virtù della sua capacità di suscitare piacere, conoscenza (valori positivi) o dispiacere (valore negativo) quando i nostri sensi sono stimolati dal contatto con tale oggetto – [Plato, L., Meskin, A. (2014). Aesthetic Value. In: Michalos, A.C. (eds) Encyclopedia of Quality of Life and Well-Being Research. Springer, Dordrecht

    [2] Esperienza di particolare euforia e benessere che si può vivere in momenti di estrema felicità. È una esperienza che consente alle persone ad entrare in contatto profondo con qualità fondamentali della vita

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  • Skill: parliamone ancora

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    Parliamo ancora di Skill

    Le skill secondo il PDM-2

    di Emanuele Fazio

    Analizziamo più nel dettaglio il concetto di skill, utilizzando quanto riportato sul manuale diagnostico psicodinamico PDM-2.

    Il PDM-2 individua tre assi dimensionali attraverso i quali è in grado di restituire una valutazione del funzionamento mentale complessivo di una persona, e pertanto collocarla in un punto che si trova lungo il segmento ai cui opposti troviamo la condizione di “mentalmente sano” e di “mentalmente malato”.

    Il funzionamento mentale viene pertanto scisso in:

    Asse P – Dove P sta per personalità. Sono valutati tratti e stili di personalità raccolti in diverse tipologie, che consentono al clinico, in funzione del livello di organizzazione che la persona è in grado di esprimere (sano, nevrotico, borderline, di determinare o meno la diagnosi.

    Asse M – Dove M sta per mentale. Sono valutati i processi base del funzionamento mentale.

    Asse S – Dove S sta per soggettività. Si tratta della capacità di ciascun essere umano a interpretare gli stimoli ambientali e decidere il corso d’azione ritenuto più opportuno (Asse M) alla luce delle proprie emozioni, credenze e conoscenze, quest’ultime derivate da esperienze più o meno analoghe fatte in precedenza.

    Ma vediamo nel dettaglio le dodici skill facenti parte dell’asse M, raggruppate in quattro specie:

    Emanuele Fazio
    Psicologo a Roma Nord


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    Le quattro tipologie di skill secondo il PDM-2, in funzione di ciò che attengono

    Processi cognitivi (pensiero) ed emotivi:

    • Abilità nell’utilizzo di attenzione e apprendimento;
    • Abilità nell’utilizzo di simbolizzazione e verbalizzazione delle esperienze cognitive, emotive, fisiologiche e comportamentali;
    • Abilità nell’utilizzo dell’empatia e dell’auto-empatia.

    Identità personale identità sociale:

    • Abilità nel collocarsi di volta in volta in un punto che si trova lungo il segmento ai cui opposti troviamo la condizione di “diverso dagli altri” e di “uguale agli altri”, tenendo conto delle opportunità e dei vantaggi che da ciò è possibile ricavare. Comprende l’abilità di costruire e mantenere una adeguata rappresentazione di sé (identità personale) e degli altri (identità sociale) ma soprattutto l’integrazione tra queste due rappresentazioni;
    • Abilità a ricercare, costruire, mantenere e se necessario risolvere, relazioni interpersonali di qualunque tipo (sentimentali, affettive, amicali, sporadiche, etc.);
    • Abilità a monitorare e valutare il livello di efficacia e efficienza nell’esercizio delle due abilità prima dette, ma più in generale, in tutte le abilità elencate, compresa questa. In altre parole, la capacità di effettuare una stima accurata, imparziale e realistica di sé stessi.

    Processi cognitivi, emotivi e comportamentali finalizzati al controllo degli impulsi e al fronteggiamento strategico delle difficoltà:

    • Abilità a controllare gli impulsi e a regolare le proprie emozioni;
    • Abilità a utilizzare le più opportune strategie di fronteggiamento (coping);
    • Abilità ad adattarsi alle circostanze, a mostrare resilienza e a reclutare quando necessario e in modo ottimale tutte le risorse psicofisiche di cui si dispone.

    Consapevolezza di sé e la motivazione:

    • Abilità a comprendere sé stesso;
    • Abilità nel costruire una struttura etico morale a sostegno e aiuto durante il proprio percorso esistenziale;
    • Abilità nel dare un senso alla propria esistenza, a definire bisogni e obiettivi, e a mantenere adeguato e funzionale l’investimento di risorse per il soddisfacimento (anche non immediato) dei bisogni e il raggiungimento degli obiettivi.

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    Sregolazione emotiva

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    di Emanuele Fazio

    Sregolazione emotiva

    La sregolazione emotiva è stata definita come l’incapacità di incrementare, mantenere o diminuire le emozioni negative o positive, con il risultato di rendere difficoltoso oppure impossibile il raggiungimento di un obiettivo desiderato ovvero l’adattamento psicofisico e specie-specifico alle situazioni socio-ambientali che si determinano attorno al soggetto. Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto. Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone opportunità, il manifestare gioia in contesti inappropriati

    Emanuele Fazio
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    La regolazione delle emozioni

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    di Emanuele Fazio

    La regolazione delle emozioni

    La regolazione delle emozioni è una componente fondamentale dei processi psicologici, intendendosi l’insieme dei processi attraverso cui sono modulate le emozioni in noi stessi e negli altri. La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo degli impulsi sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche degli stimoli ambientali, delle relazioni con gli altri e degli stessi processi psichici, costituendo il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.

    Emanuele Fazio
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  • A che servono le emozioni

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    Glossario di psicologia

    A che servono le emozioni?

    Per saperne di più

    di Emanuele Fazio

    A che servono le emozioni?

    In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente. Secondo Antonio Damasio, le emozioni potrebbero non essere un semplice corollario ai processi cognitivi, ma evolutivamente la prima e per lungo tempo unica modalità di acquisire conoscenza circa l’ambiente che circonda l’organismo, con la finalità di consentire all’organismo di riorganizzare la propria struttura e/o le proprie funzioni e/o il proprio comportamento in funzione delle informazioni in entrata, che sono sempre e comunque convertite in reazioni biofisiche e biochimiche del nostro organismo (in primis il cervello). La cognizione rappresenta una modalità di rappresentazione di queste modificazioni biochimice e biofisiche, e che è sempre riducibile a sua volta ad attività biochimiche e biofisiche, tale per cui il comportamento risulta la determinante ultima di tutti questi processi.
    Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche).

    Emanuele Fazio
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  • La teoria delle emozioni di Nico Frijda

    James Gross

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    Nico Frijda

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    di Emanuele Fazio

    La teoria delle emozioni di Nico Frijda

    La teoria e il modello teorico esplicativo proposto da Nico Frijda, descrive l’emozione come un fenomeno complesso, multicomponente, che predispone l’organismo ad una o più reazioni. Le componenti sono sei: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e infine la risposta comportamentale (o coping). Secondo il modello di Frijda, la componente principale è la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, in quanto tale spinta è in grado di regolare efficacemente l’intero processo, il quale si conclude:

    • con la messa in atto della risposta più adattiva per il soggetto;
    • l’attribuzione di un nome all’emozione provata;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari.

    Ad esempio, la propriocezione di una tensione muscolare intenzionale verso l’oggetto regola:

    • il comportamento di attacco;
    • l’attribuzione del termine “rabbia” alla propriocezione;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari (valutazione di ciò che si sta ottenendo per il tramite dell’attacco e valutazione di un cambio di strategia che ottimizzi i costi in funzione dei benefici, che potrebbero includere la fuga (cambio del termine in “paura”).

    Il modello presenta molte affinità concettuali con quello proposto nel 1884 da William James

    Emanuele Fazio
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  • La regolazione delle emozioni: il modello di James Gross

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    La regolazione delle emozioni: il modello di James Gross

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    di Emanuele Fazio

    Il modello di regolazione delle emozioni di James Gross

    Un modello teorico autorevole di regolazione delle emozioni è quello di processo, formulato da James Gross.
    Secondo questo modello la regolazione delle emozioni si riferirebbe ai processi attraverso i quali gli individui influenzano le emozioni vivono, quando le vivono, e come sperimentano ed esprimono queste emozioni. Il modello di processo non giudica le strategie di regolazione delle emozioni come “buone” o “cattive”, poiché esse possono essere considerate adattive o disadattive, a seconda del contesto e del risultato cui portano.
    Più nel dettaglio, James Gross ha definito la regolazione delle emozioni come una capacità umana espressa attraverso un processo che, partendo dalla presa d’atto cosciente di stare provando una precisa emozione, consente al soggetto di farne una completa esperienza soggettiva oltre alla attivazione e gestione delle azioni di controllo e monitoraggio del proprio comportamento (agito e/o pensato) e il conseguente riaggiornamento dell’esperienza soggettiva (feedback circolare dinamico).

    Emanuele Fazio
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    James Gross ha individuato tre variabili che sono funzione del successo ottenuto nel processo di regolazione delle emozioni:
    • avere una utilità specifica e motivante (equivale alla risposta alla domanda: quanto utile risulterà adottare una strategia di regolazione delle emozioni?
    • la capacità di adozione efficace di una o più strategie tra quelle individuate da Gross e raccolte in cinque gruppi: selezione della situazione, modifica della situazione, distribuzione delle risorse attentive, ristrutturazione cognitiva e modulazione della risposta (equivale alla risposta alle domande: quanto sarò capace di adottare una strategia di regolazione? Saprò scegliere la più adatta? Quanto dipenderà dalla efficacia/efficienza della mia risposta e quanto dipenderà da fattori che non sono in alcun modo controllabili e quindi regolabili?
    • l’importanza accordata al risultato ottenuto o ottenibile (equivale alla domanda: il risultato che otterrò, migliorerà il mio benessere/attenuerà o eliminerà il mio malessere?
    In particolare, l’attenzione di Gross si è concentrata su due particolari tecniche:

    la riconsiderazione cognitiva (cognitive reappraisal), una delle strategie facente parte del gruppo “ristrutturazione cognitiva” e la soppressione (suppression) una delle strategie facente parte del gruppo “modulazione della risposta”. Diversi esperimenti condotti sia da Gross che da altri ricercatori hanno evidenziato che la riconsiderazione cognitiva risulterebbe più efficace della soppressione e che in molti casi la soppressione non produce risultati positivi.
    La ricerca però sembra suggerire che esistono strategie di regolazione emotiva tipicamente adattive e altre tendenzialmente disadattive. Tra le prime troviamo soprattutto la strategia della rivalutazione. La ricerca scientifica ha dimostrato che è possibile promuovere e potenziare lo sviluppo di queste funzioni, con correlate modificazioni al cervello e al sistema nervoso centrale, attraverso pratiche ed esercizi mirati sia nell’età evolutiva che nell’adulto.
    Tra queste pratiche, Gross ha posto una particolare enfasi sulla pratica mindfulness.

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  • Identità sociale

    teoria dell'identità sociale

    Psicologia sociale

    La teoria dell’identità sociale

    In che modo entriamo in rapporto con gli altri

    di Emanuele Fazio

    La teoria dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1986), è una teoria della psicologia sociale dei gruppi, branca della psicologia sociale.
    Quest’ultima, indaga le modalità e i processi attraverso i quali i pensieri, le emozioni e i comportamenti di un individuo sono influenzati dalla presenza reale, immaginaria o simbolicamente rappresentata di altre persone.
    La psicologia dei gruppi indaga sia i processi attraverso i quali i pensieri, le emozioni e i comportamenti di un individuo sono influenzati da altre persone facenti parte del proprio gruppo sociale di appartenenza (processi di gruppo o relazioni intragruppo), sia i processi che influenzano le relazioni tra i gruppi, come ad esempio i pregiudizi, gli stereotipi, la competizione e i conflitti tra gruppi (relazioni intergruppo).

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    Cosa spiega la teoria dell’identità sociale?

    La teoria dell’identità sociale descrive e spiega costrutti facenti parte di entrambi i processi sopra indicati, come ad esempio i pregiudizi, le discriminazioni (razziali, di genere, di orientamento sessuale), la stereotipizzazione, l’etnocentrismo, il conformismo, la coesione di gruppo e la psicologia sociale del linguaggio.
    È importante distinguere tra le relazioni, i processi, le rappresentazioni e il comportamento tra gruppi o tra membri di gruppi diversi, e le relazioni, i processi, le rappresentazioni e il comportamento tra membri di uno stesso gruppo.

    Relazioni tra gruppi

    I primi sono associati all’identità sociale, la parte del concetto di sé che deriva dall’appartenenza a gruppi o categorie sociali, che vanno dalla famiglia alla nazionalità, passando dal tifo per la stessa squadra di calcio all’essere una squadra di calcio, dal votare per un partito politico o farne politicamente parte, e così via.

    Relazioni nel gruppo

    I secondi sono associati all’identità personale, la parte del concetto di sé che deriva dal possesso di determinate caratteristiche fisiche e psicologiche che rendono una persona unica rispetto a qualunque altra.
    L’identità personale implica un senso di continuità, o la sensazione di essere oggi la stessa persona che si era ieri o l’anno scorso (nonostante i cambiamenti fisici o di altro tipo).
    Tale senso deriva dalle sensazioni corporee; l’immagine corporea di una persona; e la sensazione che i propri ricordi, obiettivi, valori, aspettative e convinzioni appartengano al sé.

    Concludendo

    Secondo la teoria dell’identità sociale, ciascuno di noi percepisce sé stesso in modo diverso (da leggermente diverso a molto diverso) in momenti differenti della nostra quotidianità, a seconda del punto dell’asse identità individuale/identità sociale sul quale ci troviamo in un dato momento o in una data circostanza.
    L’asse, detto anche continuum, vede ai due opposti l’identità personale e l’identità sociale.
    Noi non siamo coscienti di tutti gli aspetti che compongono il nostro concetto di sé, oppure non ne facciamo esperienza cosciente simultaneamente, in quanto siamo influenzati dalla percezione di noi stessi in quel dato momento, percezione che è a sua volta influenzata dalla posizione sul continuum. La percezione di noi stessi influenza l’atteggiamento che assumiamo nei confronti di noi stessi e nei confronti degli altri, e a seguire influenza ogni nostro comportamento.
    Le variabili coinvolte sono tante ed è impossibile individuare una catena casuale lineare.

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    Cosa dice la legge italiana

    di Emanuele Fazio

    Aggressioni a medici e infermieri
    Cosa dice la legge italiana

    Le aggressioni a medici e infermieri trovano spesso spazio tra le notizie di cronaca. Oggi ci soffermeremo sulla legge italiana per la violenza a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari

    La legge 14 agosto 2020, n. 113, reca “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni”. Analizziamone il contenuto.

    All’art. 2, comma 1, è stata disposta l’istituzione, presso il Ministero della salute, dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie, con il preciso compito di monitoraggio, studio e promozione di iniziative volte a garantire la sicurezza delle figure professionali richiamate.

    Emanuele Fazio
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    blog di psicologia

    Insediamento dell’Osservatorio e indizione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro le aggressioni a medici e infermieri

    Il Ministero della Salute con decreto 13 gennaio 2022 ha ratificato l’istituzione presso la Direzione generale delle professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale del Ministero della salute, l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie e con decreto 27 gennaio 2022 ha indetto la Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari, che si svolgerà il 12 marzo di ogni anno, con il preciso fine di sensibilizzare la cittadinanza a una cultura che condanni ogni forma di violenza a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari.

    L’Osservatorio si è insediato l’11 marzo 2022, precedendo di un giorno la prima “Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari” istituita dall’art. 8 della legge 113/2020 e decretata il 27 gennaio 2022.

    In data 20 marzo 2023 è stata presentata in Parlamento la prima relazione sulle attività dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie per l’anno 2022.

    I compiti dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie

    All’Osservatorio sono stati attribuiti i seguenti compiti:

    • monitorare gli episodi di aggressioni a medici e infermieri nell’esercizio delle loro funzioni;
    • monitorare gli eventi sentinella che possano dar luogo a fatti commessi con violenza o minaccia ai danni degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni;
    • promuovere studi e analisi per la formulazione di proposte e misure idonee a ridurre i fattori di rischio negli ambienti più esposti e contenere le conseguenze che tali atti determinano agli operatori sanitari e socio-sanitari;
    • monitorare l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione a garanzia dei livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, anche promuovendo l’utilizzo di strumenti di videosorveglianza;
    • promuovere la diffusione delle buone prassi in materia di sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie, anche nella forma del lavoro in équipe;
    • promuovere lo svolgimento di corsi di formazione per il personale medico e sanitario, finalizzati alla prevenzione e alla gestione delle situazioni di conflitto nonché a migliorare la qualità della comunicazione con gli utenti.

    L’Osservatorio, secondo quanto previsto dalla legge n. 113 del 2020, acquisisce, con il supporto dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità , istituito presso l’Agenas , e con il supporto degli ordini professionali, i dati regionali relativi all’entità e alla frequenza gli episodi di violenza commessi ai danni degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni, anche con riguardo alle situazioni di rischio o di vulnerabilità nell’ambiente di lavoro.

    Gli altri articoli della legge italiana per la violenza a danno degli operatori sanitari e socio-sanitari
    Articolo 4

    L’articolo 4 della suddetta legge apporta modifiche all’articolo 583-quater del codice penale, riviste dal Decreto Legge 30 marzo 2023, n. 34. Nel delitto di lesioni personali, la figura del pubblico ufficiale include adesso anche quella del personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria e di chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali. Pertanto, in caso di lesioni non gravi, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, si applica la reclusione da quattro a dieci anni (lesioni gravi) e da otto a sedici anni (lesioni gravissime).

    Articolo 5

    L’art. 5 della legge ha aggiunto, inoltre, il comma 11-octies all’articolo 61 del codice penale (circostanze aggravanti comuni) prevedendo anche quella dell’avere agito, nei delitti commessi con violenza o minaccia, in danno degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nonché di chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, a causa o nell’esercizio di tali professioni o attività.

    Articolo 6 – Modifiche in materia di procedibilità d’ufficio

    L’ art. 6 ha apportato ulteriori modifiche al codice penale in materia di procedibilità, sia all’art. 581 (delitto di percosse), sia all’art. 582 (delitto di lesione personale). Per entrambi gli articoli, in presenza dell’aggravante prevista dal comma 11-octies prima detta, la procedibilità non è più a querela della persona offesa ma diventa d’ufficio (obbligatorietà dell’azione penale). Non si tratta di una modifica di poco conto. Tutti gli esercenti una professione sanitaria che, a qualsiasi titolo, prestano servizio in un’organizzazione sanitaria ricoprono sempre almeno la qualifica di incaricato di pubblico servizio (ex art. 362 c.p.) e, in taluni casi, acquisiscono, in modo permanente o transitorio, la qualifica di pubblico ufficiale (ex art. 361 c.p.). 

    Il codice penale

    Il codice penale impone ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio l’obbligo di informare tempestivamente l’Autorità Giudiziaria di qualsiasi notizia di reato relativa a delitti procedibili d’ufficio, la cui violazione è punita con una sanzione, da 30 euro a 516 euro nel caso di pubblico ufficiale (ex art. 361 c.p.) e fino a 103 euro per incaricato di un pubblico servizio (ex art. 362 c.p.). Nella fattispecie, gli operatori sanitari e sociosanitari che ricoprono le qualifiche prima dette sono tenuti ad informare l’Autorità Giudiziaria qualora siano testimoni o vittime dirette di percosse e/o lesioni personali a danno di operatori sanitari e sociosanitari e quindi anche a danno di sé stessi.

    Articolo 7 – Presidi fissi di polizia e carabinieri negli ospedali

    Assume rilievo, anche l’art. 7 della legge: al fine di prevenire le aggressioni a medici e infermieri, le strutture presso le quali opera il personale sanitario e socio-sanitario devono prevedere, nei propri piani per la sicurezza, misure volte a stipulare specifici protocolli operativi con le forze di polizia, per garantire il tempestivo intervento.

    Articolo 9

    L’art. 9 introduce una sanzione amministrativa, salvo che il fatto costituisca reato, costituita dal pagamento di una somma compresa tra 500 e 5.000 euro, a carico di chiunque tenga condotte violente, ingiuriose, offensive o moleste nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie in argomento.

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    ansia

    di Emanuele Fazio

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    Ansia

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    Oggi parleremo dell’ansia. Ricordi l’ultima volta che improvvisamente hai iniziato a respirare affannosamente, hai sentito i tuoi muscoli tendersi e il battito del cuore accelerare?
    È stato quando la tua auto è quasi uscita di strada sotto la pioggia?
    Quando a scuola la professoressa voleva interrogare qualcuno e tu non ti sentivi abbastanza preparato?
    Che dire di quando la persona di cui ti eri innamorato ne frequentava invece un’altra, o il tuo capo ha detto che le tue prestazioni lavorative dovrebbero migliorare?


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    Che cos’è l’ansia?

    Ogni volta che affronti quella che sembra essere una seria minaccia al tuo benessere, puoi reagire con una emozione chiamata paura.
    A volte però non riesci a individuare una causa specifica per il tuo stato di allarme, ma ti senti comunque teso e nervoso, come se ti aspettassi che accada qualcosa di spiacevole: la vaga sensazione di essere in pericolo è solitamente chiamata ansia e ha le stesse caratteristiche – gli stessi aumenti della respirazione, della tensione muscolare, della sudorazione e così via – della paura.

    Sebbene le esperienze quotidiane di paura e ansia non siano piacevoli, spesso sono utili.

    Ci preparano all’azione – per “combattere o fuggire” – quando un pericolo (vero o presunto) minaccia il nostro benessere o la nostra incolumità.
    Ansia e paura possono costringerci a guidare con maggiore cautela durante un acquazzone, ad adempiere scrupolosamente ai compiti che ci vengono assegnati da professori o capi, a trattare i nostri amici in un modo tale da non dover poi temere in una loro reazione ostile.
    Sfortunatamente, alcune persone soffrono di paura e/o ansia in modo così invalidante da non poter condurre una vita normale.
    Il loro disagio è troppo grave e/o troppo frequente, dura troppo a lungo e/o si innesca troppo facilmente. Si dice che queste persone soffrono di un disturbo d’ansia o un tipo di disturbo correlato.


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    In un dato anno circa il 19% della popolazione adulta soffre di uno dei diversi disturbi d’ansia identificati dal DSM-5, mentre quasi il 31% di tutte le persone sviluppa uno dei disturbi ad un certo punto della propria vita.
    Solo il 42% circa di queste persone riceve un trattamento farmacologico e/o psicologico.

    Le persone con fobie specifiche hanno una paura persistente e irrazionale di un particolare oggetto, attività o situazione.
    Le persone con agorafobia temono di trovarsi in luoghi pubblici come negozi o cinema.
    Quelle con disturbo d’ansia sociale hanno un’intensa paura delle situazioni sociali o di essere costrette a dover fare qualcosa che le faccia poi sentire in imbarazzo.
    Quelle con disturbo di panico hanno attacchi ricorrenti.

    La maggior parte delle persone con un disturbo d’ansia soffre anche di un secondo disturbo della stessa specie e in genere soffrono anche di depressione.

    Inoltre, l’ansia gioca un ruolo importante nei disturbi ossessivo-compulsivi e correlati.
    Le persone con questi disturbi si sentono invase da pensieri ricorrenti che causano ansia o dalla necessità di eseguire determinate azioni ripetitive per provare a ridurla.

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  • Le emozioni

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    Psicologia individuale

    Le emozioni

    Capiamo meglio cosa sono e come funzionano

    di Emanuele Fazio

    Secondo la definizione della Associazione Psicologica Americana, le emozioni sono un modello fenomenico complesso, di natura reattiva, che coinvolge varie esperienze soggettive, sia di natura fisica (comportamenti, riflessi, attivazione fisiologica) che psicologica (esperienza soggettiva, processi cognitivi), non sempre a livello cosciente. Si tratta di un modello funzionale evolutosi per fronteggiare fenomeni o eventi con il quale un organismo entra costantemente in relazione significativa.

    Emanuele Fazio
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    Etimologia

    Deriva dal latino emotionem, a sua volta derivato dalla sostantivazione di emotus, participio passato del verbo emovere, nel significato di trasportare fuori, smuovere, scuotere (da cui anche “scosso”). Emovere è a sua volta composto dal prefisso e- nel significato di “da”, moto da luogo, e da movere, nel significato di agitare, muovere.

    Caratteristiche delle emozioni

    L’emozione ha effetto sugli aspetti cognitivi: può causare diminuzioni o miglioramenti nella capacità di concentrazione, confusione, smarrimento, allerta, e così via. Il volto e il linguaggio verbale possono quindi riflettere all’esterno le emozioni più profonde: una voce tremolante, un tono alterato, un sorriso solare, la fronte corrugata indicano la presenza di uno specifico stato emotivo.

    Differenza tra emozione, sentimento, affetto e umore o stato d’animo

    Damasio ha proposto la seguente differenziazione: l’emozione (emotion) è uno stato mentale in gran parte inconscio, originatosi quale reazione neurobiologica ad un determinato stimolo, per il tramite di una serie rapida di attivazioni e/o inibizioni sinaptiche che coinvolgono diverse aree del cervello, in particolare il sistema limbico e la corteccia prefrontale. La funzione è quella di predisporre l’organismo, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare uno stimolo emotigeno. Tale predisposizione fa emergere tutta una serie di altri fenomeni, in primis sensazioni propriocettive corporee, che costituiscono la base dell’esperienza cosciente dell’emozione, e che Damasio chiama coscienza di base (core consciousness) oppure sensazione della sensazione/metasensazione (feeling of feeling). 

    Il sentimento

    Un fenomeno intermedio è costituito dal sentimento (core feeling), non ancora cosciente e che si verifica durante l’emersione alla coscienza delle altre componenti: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e la risposta comportamentale (o coping).

    Si differenziano quindi dai sentimenti e dagli stati d’animo, anche se questi termini vengono spesso usati indifferentemente nel senso comune.

    A che servono le emozioni?

    Secondo Antonio Damasio, le emozioni potrebbero non essere un semplice corollario ai processi cognitivi, ma evolutivamente la prima e per lungo tempo unica modalità di acquisire conoscenza circa l’ambiente che circonda l’organismo, con la finalità di consentire all’organismo di riorganizzare la propria struttura e/o le proprie funzioni e/o il proprio comportamento in funzione delle informazioni in entrata, che sono sempre e comunque convertite in reazioni biofisiche e biochimiche del nostro organismo (in primis il cervello). La cognizione rappresenta una modalità di rappresentazione di queste modificazioni biochimiche e biofisiche, e che è sempre riducibile a sua volta ad attività biochimiche e biofisiche, tale per cui il comportamento risulta la determinante ultima di tutti questi processi.

    Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche).

    Classificazione delle emozioni

    Le differenti emozioni dipendono dal significato o salienza attribuita dal soggetto allo stimolo, primariamente in funzione del tono affettivo (aversivo, appetitivo o un mix di entrambi) e dell’intensità.

    Antonio Damasio, distingue due tipi di emozione: le emozioni primarie, che sono innate e preorganizzate e le emozioni secondarie, che sono elaborate dall’esperienza attraverso i circuiti del “come se”. Secondo Damasio, si possono avere delle reazioni emotive, delle quali però si è inconsapevoli, anche in assenza di modificazioni psicofisiologiche. Inoltre, “è possibile che siamo predisposti a rispondere con un’emozione, in modo preorganizzato, quando vengono percepite nel mondo esterno o nel nostro corpo – isolatamente o in combinazione – certe caratteristiche di stimoli, di cui sono esempi la dimensione (come per gli animali grossi); l’estensione (come per l’apertura alare dell’aquila); il tipo di movimento (come per i rettili); certi suoni (come il ringhio); certe configurazioni di stati del corpo (come il dolore che si avverte durante un attacco cardiaco)”. 

    Il ruolo dell’amigdala

    L’amigdala elabora in parallelo gli stimoli prima detti e definisce una sorta di algoritmo che si associa ad un altro algoritmo (un meccanismo chiamato matching). Quest’ultimo algoritmo è di tipo disposizionale e man mano che il primo si delinea, si delinea anch’esso (molto simile come meccanismo a quello della scrittura predittiva o facilitata degli smartphone), iniziando ad allertare, pre-attivare e attivare aree e nuclei cerebrali preposti a funzioni cognitive, somato-sensoriali e motorie e che a sua volta determinano le emozioni secondarie. Dice Damasio: “Il sentire l’emozione diventa pertanto un fenomeno emergente quale insieme diverso dalla semplice somma delle parti, cioè quelle parti che autonomamente e con tempi di reazione/attivazione diversi sono intervenuti per un “primo intervento” e successivamente, anche grazie alla comunicazione a feedback circolare, affinano l’esperienza”.

    Le teorie delle emozioni

    Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve.

    Cannon – Bard

    Tra le tipologie di risposta o reazione vi sono i riflessi e per quanto attiene alla risposta a stimoli aversivi di elevata intensità, il riflesso principale è quello detto “reazione di attacco o fuga” (fight-or-flight response), concettualizzato negli anni venti del ventesimo secolo da proprio da Cannon e Bard.

    James – Lange

    James – Lange sta per William James e Carl Lange, quest’ultimo un medico danese. Essi condussero i loro studi senza che l’uno fosse a conoscenza del lavoro dell’altro. Nel capitolo 25 del suo “Principi di Psicologia” del 1890, James scrive: “I cambiamenti corporei seguono immediatamente la percezione dello stimolo emotigeno, e che la nostra sensazione di questi stessi cambiamenti mentre si stanno verificando È l’emozione”. Quindi, secondo James, la percezione non cosciente di un fenomeno emotigeno o stressorio – come ad esempio la comparsa di un serpente – determina una modifica fisiologica nel soggetto coinvolto. La prima percezione cosciente del soggetto non è la vista del serpente, ma la modifica fisiologica, che secondo James è specifica per quel tipo di emozione. A seguire, il soggetto abbina un nome alla modifica fisiologica e attribuisce la causa al serpente. 

    La sequenza dei fenomeni

    La sequenza dei fenomeni è pertanto la seguente:

    1. Stimolo avversivo colto dal sistema visivo con immediata risposta fisiologica preparatoria alla risposta più appropriata, che nel nostro caso è plausibilmente la fuga (il tutto senza consapevolezza del soggetto).
    2. Propriocezione cosciente dell’attivazione della risposta fisiologica, che secondo James è specifica per quel tipo di emozione. Questo è il motivo per cui il soggetto comprende coscientemente che si tratta di paura senza il coinvolgimento di strutture della neocorteccia: la risposta fisiologica specifica per ogni tipo di emozione, in particolare per le emozioni di base, contiene già l’informazione “paura”.
    3. Associazione della causa (il serpente) per emersione alla coscienza della visione: ho paura perché ho visto un serpente.

    Nel modello di James, la risposta fisiologica preconscia è la risposta riflessa di fuga – come sarà successivamente chiamata da Cannon – e quindi avviene prima che il soggetto abbia contezza cosciente del pericolo. Come dire: il soggetto inizia a scappare senza ancora sapere coscientemente il perché. Per James, la risposta fisiologica è sufficiente a fornire le basi per l’esperienza soggettiva cosciente dell’emozione. L’attribuzione cosciente della causa completa l’esperienza.

    La teoria dell’emozione costruita di Lisa Feldman Barrett[

    Secondo la teoria della Feldman Barrett, le emozioni vengono prodotte dal nostro cervello per il tramite di una procedura facilitata (quasi una sorta di funzione T9) che si attiva tutte le volte che vi è necessità, una funzione o processo di codifica predittiva o elaborazione predittiva che nell’ambito delle neuroscienze è modellizzato postulando che il cervello genera continuamente modelli dell’ambiente in risposta a possibili stimoli che da quest’ultimo potrebbero arrivare alla percezione, in aggiunta oppure in sostituzione di effettivi stimoli.

    Per la Feldman Barrett, gli individui, piuttosto che fare esperienza di emozioni discrete e già classificate come paura, gioia o rabbia, fanno esperienza di stati affettivi grezzi sui quali poi inferiscono propri stati mentali e a cui attribuiscono etichette discrete, come appunto paura, gioia o rabbia. Tutto ciò avviene grazie alla attivazione di numerosi network neurali, che concorrono all’esperienza affettiva e determinano la personale costruzione dell’esperienza emotiva complessa. Le emozioni non sono pertanto né di base, né innate, e nemmeno apprese. Sono fenomeni emergenti che si determinano in funzione di fattori prevalentemente socio-culturali. Dice la Feldman Barrett: “Durante ogni istante della fase di veglia, il tuo cervello utilizza l’esperienza passata (organizzata in concetti) la quale guida le tue azioni e dà significato alle tue sensazioni. Quando i concetti utilizzati sono concetti associati a stati affettivi, il tuo cervello fa l’esperienza soggettiva di ciò che chiamiamo emozione”.

    La teoria multi-componenziale di Nico Henri Frijda

    La teoria e il modello teorico esplicativo proposto da Frijda, descrive l’emozione come un fenomeno complesso, multicomponente, che predispone l’organismo ad una o più reazioni. Le componenti sono sei: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e infine la risposta comportamentale (o coping). Secondo il modello di Frijda, la componente principale è la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, in quanto tale spinta è in grado di regolare efficacemente l’intero processo, il quale si conclude:

    • con la messa in atto della risposta più adattiva per il soggetto;
    • l’attribuzione di un nome all’emozione provata;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari.

    Ad esempio, la propriocezione di una tensione muscolare intenzionale verso l’oggetto regola:

    • il comportamento di attacco;
    • l’attribuzione del termine “rabbia” alla propriocezione;
    • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari (valutazione di ciò che si sta ottenendo per il tramite dell’attacco e valutazione di un cambio di strategia che ottimizzi i costi in funzione dei benefici, che potrebbero includere la fuga (cambio del termine in “paura”).

    Il modello presenta molte affinità concettuali con quello proposto nel 1884 da William James.

    La regolazione delle emozioni

    Un elemento fondamentale delle emozioni è la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui sono modulate le emozioni in noi stessi e negli altri. La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche degli stimoli ambientali, delle relazioni con gli altri e degli stessi processi psichici, costituendo il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.

    James Gross

    Un modello teorico autorevole di regolazione delle emozioni è quello di processo, formulato da Gross.

    Rielaborazione del modello del processo di regolazione emotiva di J. Gross (1998, 2002)

    Secondo questo modello la regolazione delle emozioni si riferirebbe ai processi attraverso i quali gli individui influenzano le emozioni vivono, quando le vivono, e come sperimentano ed esprimono queste emozioni. Il modello di processo non giudica le strategie di regolazione delle emozioni come “buone” o “cattive”, poiché esse possono essere considerate adattive o disadattive, a seconda del contesto e del risultato cui portano.

    Più nel dettaglio, James J. Gross ha definito la regolazione delle emozioni come una capacità umana espressa attraverso un processo che, partendo dalla presa d’atto cosciente di stare provando una precisa emozione, consente al soggetto di farne una completa esperienza soggettiva oltre alla attivazione e gestione delle azioni di controllo e monitoraggio del proprio comportamento (agito e/o pensato) e il conseguente riaggiornamento dell’esperienza soggettiva (feedback circolare dinamico).

    Le variabili di Gross

    Gross ha individuato tre variabili che sono funzione del successo ottenuto nel processo di regolazione delle emozioni:

    • avere una utilità specifica e motivante (equivale alla risposta alla domanda: quanto utile risulterà adottare una strategia di regolazione delle emozioni?
    • la capacità di adozione efficace di una o più strategie tra quelle individuate da Gross e raccolte in cinque gruppi: selezione della situazione, modifica della situazione, distribuzione delle risorse attentive, ristrutturazione cognitiva e modulazione della risposta (equivale alla risposta alle domande: quanto sarò capace di adottare una strategia di regolazione? Saprò scegliere la più adatta? Quanto dipenderà dalla efficacia/efficienza della mia risposta e quanto dipenderà da fattori che non sono in alcun modo controllabili e quindi regolabili?
    • l’importanza accordata al risultato ottenuto o ottenibile (equivale alla domanda: il risultato che otterrò, migliorerà il mio benessere/attenuerà o eliminerà il mio malessere?
    Riconsiderazione cognitiva e soppressione

    In particolare, l’attenzione di Gross si è concentrata su due particolari tecniche: la riconsiderazione cognitiva (cognitive reappraisal), una delle strategie facente parte del gruppo “ristrutturazione cognitiva” e la soppressione (suppression) una delle strategie facente parte del gruppo “modulazione della risposta”. Diversi esperimenti condotti sia da Gross che da altri ricercatori hanno evidenziato che la riconsiderazione cognitiva risulterebbe più efficace della soppressione e che in molti casi la soppressione non produce risultati positivi.

    La ricerca però sembra suggerire che esistono strategie di regolazione emotiva tipicamente adattive e altre tendenzialmente disadattive. Tra le prime troviamo soprattutto la strategia della rivalutazione. La ricerca scientifica ha dimostrato che è possibile promuovere e potenziare lo sviluppo di queste funzioni, con correlate modificazioni al cervello e al sistema nervoso centrale, attraverso pratiche ed esercizi mirati sia nell’età evolutiva che nell’adulto.Tra queste pratiche, Gross ha posto una particolare enfasi sulla pratica mindfulness.

    Parkinson e Totterdell

    Secondo il modello proposto da Parkinson e Totterdell, le strategie di regolazione emotiva sono classificabili in funzione del tipo di strategia (cognitiva o comportamentale) e del riflesso che le sottende (fuga oppure attacco), in quest’ultima dimensione distinguendo a sua volta tra modalità diverse. La seguente tabella esemplifica il modello:

     

    Strategia cognitiva

    Strategia comportamentale

    Fuga per distacco

    Auto-ottundimento cognitivo: ridurre l’attività di pensiero tout court (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia)

    Evitamento fisico del fattore emotigeno (una delle strategie di selezione della situazione di Gross – 1° strategia)

    Fuga per distrazione

    Auto-ottundimento cognitivo specifico: ridurre l’attività di pensiero solo in riferimento al fattore emotigeno (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia)

    In presenza del fattore emotigeno, distrarsi. Fare finta che il fattore non c’è ovvero che è innocuo (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia) oppure non manifestare l’emozione o soppressione (una delle strategie di modulazione della risposta di Gross – 5° strategia)

    Attacco al fattore emotigeno

    Riconsiderazione cognitiva/cognitive reappaisal (una delle strategie della ristrutturazione cognitiva di Gross – 4° strategia)

    Manifestare l’emozione (una delle strategie di modulazione della risposta di Gross – 5° strategia)

    Attacco alla situazione che

    contiene il fattore emotigeno

    Avviare e sostenere il processo di problem solving (una delle strategie di modifica della situazione di Gross – 2° strategia)

    Agire concretamente sul problema (una delle strategie di modifica della situazione di Gross – 2° strategia)

    Richard Lazarus

    La teoria delle emozioni di R. Lazarus postula che un’emozione è la risultante dinamica di quattro processi distinti ma interdipendenti: valutazione, fronteggiamento, flusso di azioni e reazioni e attribuzione di significato alla relazione tra soggetto e oggetto (detto anche significato relazionale). parte dalla premessa che la funzione fondamentale delle emozioni è quella di segnalare se un dato comportamento è adatto all’ambiente, anche in funzione del mantenimento di uno stato di benessere e al pieno soddisfacimento dei nostri bisogni.

    Le emozioni facilitano o compromettono le relazioni interpersonali, soprattutto quelle intime. La rabbia può prevalere sulla tolleranza e portare a ritorsioni. Il senso di colpa e l’ansia possono minare la determinazione a realizzare qualcosa o ad affermare se stessi.

    Il coping

    Non c’è abilità di coping più utile come quella di sapere affrontare le relazioni interpersonali, specialmente quando queste relazioni sono travagliate. Anche se pensiamo di aver compreso il tipo di emozione che stiamo provando e cosa l’ha generata, spesso sbagliamo ad attribuire la sua causa e/o altrettanto spesso sbagliamo a stabilire il tipo di emozione che stiamo provando, e tutte le altre combinazioni che è possibile ricavare.

    Una caratteristica fondamentale delle emozioni è che spesso sono difficili da controllare, specialmente quando sono intense. La regolazione delle emozioni è una delle funzioni del coping.

    La valutazione

    La valutazione (appraising) è un processo cognitivo che consiste nella valutazione della natura e del significato di un fenomeno, che è poi la relazione che si instaura tra il soggetto e l’oggetto. Avviene in due momenti distinti, che Lazarus chiama primaria e secondaria. La primaria corrisponde ad una prima valutazione, in genere automatica, della rilevanza o salienza di ciò che sta accadendo attorno al soggetto. Il soggetto non ha ancora piena contezza di ciò che sta accadendo ma ha già valutato la situazione come potenzialmente minacciosa oppure che ha già prodotto un danno oppure se rappresenta una opportunità da cogliere. La secondaria corrisponde alla valutazione che il soggetto fa circa la propria capacità di fronteggiare non la situazione attuale (coping) bensì la propria capacità di fronteggiare la situazione potenziale futura (potential coping) che si determinerebbe in funzione del primo fronteggiamento.

    Ancora sul coping

    Il fronteggiamento (coping) è un processo cognitivo e comportamentale di tipo strategico e pertanto finalizzato ad un obiettivo intenzionalmente diretto verso il soggetto oppure l’oggetto al fine di modificare la relazione e la rivalutazione della stessa.

    Il flusso di azioni e reazioni (flow of actions and reactions) è essenzialmente un processo comportamentale, fisico e verbale, osservabile oppure inferibile, che recluta abilità come l’empatia e la mentalizzazione.

    I temi relazionali fondamentali sono i significati che il soggetto attribuisce all’algoritmo relazionale che di volta in volta si determina nel flusso di azioni e reazioni. I temi relazionali fondamentali sono l’outcome del processo di attribuzione di significato alla relazione tra soggetto e oggetto (detto anche significato relazionale o relational meaning). Le tre componenti individuate da Lazarus e che costituiscono i temi relazionali fondamentali sono:

    • il coping potential (diverso dal coping);
    • il coinvolgimento dell’Io;
    • l’importanza dell’obiettivo da raggiungere. 

    Lazarus postula che i temi relazionali fondamentali rappresentino le determinanti prossimali delle emozioni. Abbiamo tanti temi relazionali fondamentali quante sono le emozioni fondamentali, che Lazarus indica nel numero di quindici. 

    Le emozioni fondamentali

    Le 15 emozioni fondamentali secondo Lazarus sono: rabbia, ansia, paura, colpa, vergogna, tristezza, invidia, gelosia, disgusto, felicità, orgoglio, sollievo, speranza, amore e compassione.
    Ad esempio: la rabbia ha come tema relazionale fondamentale un’offesa umiliante diretta al soggetto o a qualcuno/qualcosa che è caro al soggetto. Il riflesso/impulso/comportamento associato è l’aggressione (attacco).

    La sregolatezza emotiva

    La sregolatezza emotiva è stata definita come l’incapacità di incrementare, mantenere o diminuire le emozioni negative o positive, con il risultato di rendere difficoltoso oppure impossibile il raggiungimento di un obiettivo desiderato ovvero l’adattamento psicofisico e specie-specifico alle situazioni socio-ambientali che si determinano attorno al soggetto. Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto. Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone opportunità, il manifestare gioia in contesti inappropriati.

    La sregolatezza emotiva è inoltre associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD) e ancora a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello. La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità.

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    Indice

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      Etimologia

      Deriva dal latino emotionem, a sua volta derivato dalla sostantivazione di emotus, participio passato del verbo emovere, nel significato di trasportare fuori, smuovere, scuotere (da cui anche “scosso”). Emovere è a sua volta composto dal prefisso e- nel significato di “da”, moto da luogo, e da movere, nel significato di agitare, muovere.

      Caratteristiche delle emozioni

      L’emozione ha effetto sugli aspetti cognitivi: può causare diminuzioni o miglioramenti nella capacità di concentrazione, confusione, smarrimento, allerta, e così via. Il volto e il linguaggio verbale possono quindi riflettere all’esterno le emozioni più profonde: una voce tremolante, un tono alterato, un sorriso solare, la fronte corrugata indicano la presenza di uno specifico stato emotivo.

      Differenza tra emozione, sentimento, affetto e umore o stato d’animo

      Damasio ha proposto la seguente differenziazione: l’emozione (emotion) è uno stato mentale in gran parte inconscio, originatosi quale reazione neurobiologica ad un determinato stimolo, per il tramite di una serie rapida di attivazioni e/o inibizioni sinaptiche che coinvolgono diverse aree del cervello, in particolare il sistema limbico e la corteccia prefrontale. La funzione è quella di predisporre l’organismo, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare uno stimolo emotigeno. Tale predisposizione fa emergere tutta una serie di altri fenomeni, in primis sensazioni propriocettive corporee, che costituiscono la base dell’esperienza cosciente dell’emozione, e che Damasio chiama coscienza di base (core consciousness) oppure sensazione della sensazione/metasensazione (feeling of feeling). 

      Il sentimento

      Un fenomeno intermedio è costituito dal sentimento (core feeling), non ancora cosciente e che si verifica durante l’emersione alla coscienza delle altre componenti: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e la risposta comportamentale (o coping).

      Si differenziano quindi dai sentimenti e dagli stati d’animo, anche se questi termini vengono spesso usati indifferentemente nel senso comune.

      A che servono le emozioni?

      Secondo Antonio Damasio, le emozioni potrebbero non essere un semplice corollario ai processi cognitivi, ma evolutivamente la prima e per lungo tempo unica modalità di acquisire conoscenza circa l’ambiente che circonda l’organismo, con la finalità di consentire all’organismo di riorganizzare la propria struttura e/o le proprie funzioni e/o il proprio comportamento in funzione delle informazioni in entrata, che sono sempre e comunque convertite in reazioni biofisiche e biochimiche del nostro organismo (in primis il cervello). La cognizione rappresenta una modalità di rappresentazione di queste modificazioni biochimiche e biofisiche, e che è sempre riducibile a sua volta ad attività biochimiche e biofisiche, tale per cui il comportamento risulta la determinante ultima di tutti questi processi.

      Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche).

      Classificazione delle emozioni

      Le differenti emozioni dipendono dal significato o salienza attribuita dal soggetto allo stimolo, primariamente in funzione del tono affettivo (aversivo, appetitivo o un mix di entrambi) e dell’intensità.

      Antonio Damasio, distingue due tipi di emozione: le emozioni primarie, che sono innate e preorganizzate e le emozioni secondarie, che sono elaborate dall’esperienza attraverso i circuiti del “come se”. Secondo Damasio, si possono avere delle reazioni emotive, delle quali però si è inconsapevoli, anche in assenza di modificazioni psicofisiologiche. Inoltre, “è possibile che siamo predisposti a rispondere con un’emozione, in modo preorganizzato, quando vengono percepite nel mondo esterno o nel nostro corpo – isolatamente o in combinazione – certe caratteristiche di stimoli, di cui sono esempi la dimensione (come per gli animali grossi); l’estensione (come per l’apertura alare dell’aquila); il tipo di movimento (come per i rettili); certi suoni (come il ringhio); certe configurazioni di stati del corpo (come il dolore che si avverte durante un attacco cardiaco)”. 

      Il ruolo dell’amigdala

      L’amigdala elabora in parallelo gli stimoli prima detti e definisce una sorta di algoritmo che si associa ad un altro algoritmo (un meccanismo chiamato matching). Quest’ultimo algoritmo è di tipo disposizionale e man mano che il primo si delinea, si delinea anch’esso (molto simile come meccanismo a quello della scrittura predittiva o facilitata degli smartphone), iniziando ad allertare, pre-attivare e attivare aree e nuclei cerebrali preposti a funzioni cognitive, somato-sensoriali e motorie e che a sua volta determinano le emozioni secondarie. Dice Damasio: “Il sentire l’emozione diventa pertanto un fenomeno emergente quale insieme diverso dalla semplice somma delle parti, cioè quelle parti che autonomamente e con tempi di reazione/attivazione diversi sono intervenuti per un “primo intervento” e successivamente, anche grazie alla comunicazione a feedback circolare, affinano l’esperienza”.

      Le teorie delle emozioni

      Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve.

      Cannon – Bard

      Tra le tipologie di risposta o reazione vi sono i riflessi e per quanto attiene alla risposta a stimoli aversivi di elevata intensità, il riflesso principale è quello detto “reazione di attacco o fuga” (fight-or-flight response), concettualizzato negli anni venti del ventesimo secolo da proprio da Cannon e Bard.

      James – Lange

      James – Lange sta per William James e Carl Lange, quest’ultimo un medico danese. Essi condussero i loro studi senza che l’uno fosse a conoscenza del lavoro dell’altro. Nel capitolo 25 del suo “Principi di Psicologia” del 1890, James scrive: “I cambiamenti corporei seguono immediatamente la percezione dello stimolo emotigeno, e che la nostra sensazione di questi stessi cambiamenti mentre si stanno verificando È l’emozione”. Quindi, secondo James, la percezione non cosciente di un fenomeno emotigeno o stressorio – come ad esempio la comparsa di un serpente – determina una modifica fisiologica nel soggetto coinvolto. La prima percezione cosciente del soggetto non è la vista del serpente, ma la modifica fisiologica, che secondo James è specifica per quel tipo di emozione. A seguire, il soggetto abbina un nome alla modifica fisiologica e attribuisce la causa al serpente. 

      La sequenza dei fenomeni

      La sequenza dei fenomeni è pertanto la seguente:

      1. Stimolo avversivo colto dal sistema visivo con immediata risposta fisiologica preparatoria alla risposta più appropriata, che nel nostro caso è plausibilmente la fuga (il tutto senza consapevolezza del soggetto).
      2. Propriocezione cosciente dell’attivazione della risposta fisiologica, che secondo James è specifica per quel tipo di emozione. Questo è il motivo per cui il soggetto comprende coscientemente che si tratta di paura senza il coinvolgimento di strutture della neocorteccia: la risposta fisiologica specifica per ogni tipo di emozione, in particolare per le emozioni di base, contiene già l’informazione “paura”.
      3. Associazione della causa (il serpente) per emersione alla coscienza della visione: ho paura perché ho visto un serpente.

      Nel modello di James, la risposta fisiologica preconscia è la risposta riflessa di fuga – come sarà successivamente chiamata da Cannon – e quindi avviene prima che il soggetto abbia contezza cosciente del pericolo. Come dire: il soggetto inizia a scappare senza ancora sapere coscientemente il perché. Per James, la risposta fisiologica è sufficiente a fornire le basi per l’esperienza soggettiva cosciente dell’emozione. L’attribuzione cosciente della causa completa l’esperienza.

      La teoria dell’emozione costruita di Lisa Feldman Barrett[

      Secondo la teoria della Feldman Barrett, le emozioni vengono prodotte dal nostro cervello per il tramite di una procedura facilitata (quasi una sorta di funzione T9) che si attiva tutte le volte che vi è necessità, una funzione o processo di codifica predittiva o elaborazione predittiva che nell’ambito delle neuroscienze è modellizzato postulando che il cervello genera continuamente modelli dell’ambiente in risposta a possibili stimoli che da quest’ultimo potrebbero arrivare alla percezione, in aggiunta oppure in sostituzione di effettivi stimoli.

      Per la Feldman Barrett, gli individui, piuttosto che fare esperienza di emozioni discrete e già classificate come paura, gioia o rabbia, fanno esperienza di stati affettivi grezzi sui quali poi inferiscono propri stati mentali e a cui attribuiscono etichette discrete, come appunto paura, gioia o rabbia. Tutto ciò avviene grazie alla attivazione di numerosi network neurali, che concorrono all’esperienza affettiva e determinano la personale costruzione dell’esperienza emotiva complessa. Le emozioni non sono pertanto né di base, né innate, e nemmeno apprese. Sono fenomeni emergenti che si determinano in funzione di fattori prevalentemente socio-culturali. Dice la Feldman Barrett: “Durante ogni istante della fase di veglia, il tuo cervello utilizza l’esperienza passata (organizzata in concetti) la quale guida le tue azioni e dà significato alle tue sensazioni. Quando i concetti utilizzati sono concetti associati a stati affettivi, il tuo cervello fa l’esperienza soggettiva di ciò che chiamiamo emozione”.

      La teoria multi-componenziale di Nico Henri Frijda

      La teoria e il modello teorico esplicativo proposto da Frijda, descrive l’emozione come un fenomeno complesso, multicomponente, che predispone l’organismo ad una o più reazioni. Le componenti sono sei: la valutazione cognitiva, l’esperienza soggettiva, la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, la reazione fisiologica del sistema nervoso simpatico, la mimica facciale (o espressione facciale delle emozioni) e infine la risposta comportamentale (o coping). Secondo il modello di Frijda, la componente principale è la propriocezione di una spinta ad agire e/o pensare, in quanto tale spinta è in grado di regolare efficacemente l’intero processo, il quale si conclude:

      • con la messa in atto della risposta più adattiva per il soggetto;
      • l’attribuzione di un nome all’emozione provata;
      • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari.

      Ad esempio, la propriocezione di una tensione muscolare intenzionale verso l’oggetto regola:

      • il comportamento di attacco;
      • l’attribuzione del termine “rabbia” alla propriocezione;
      • l’attivazione di tutti i processi cognitivi secondari (valutazione di ciò che si sta ottenendo per il tramite dell’attacco e valutazione di un cambio di strategia che ottimizzi i costi in funzione dei benefici, che potrebbero includere la fuga (cambio del termine in “paura”).

      Il modello presenta molte affinità concettuali con quello proposto nel 1884 da William James.

      La regolazione delle emozioni

      Un elemento fondamentale delle emozioni è la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui sono modulate le emozioni in noi stessi e negli altri. La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche degli stimoli ambientali, delle relazioni con gli altri e degli stessi processi psichici, costituendo il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.

      James Gross

      Un modello teorico autorevole di regolazione delle emozioni è quello di processo, formulato da Gross.

      Rielaborazione del modello del processo di regolazione emotiva di J. Gross (1998, 2002)

      Secondo questo modello la regolazione delle emozioni si riferirebbe ai processi attraverso i quali gli individui influenzano le emozioni vivono, quando le vivono, e come sperimentano ed esprimono queste emozioni. Il modello di processo non giudica le strategie di regolazione delle emozioni come “buone” o “cattive”, poiché esse possono essere considerate adattive o disadattive, a seconda del contesto e del risultato cui portano.

      Più nel dettaglio, James J. Gross ha definito la regolazione delle emozioni come una capacità umana espressa attraverso un processo che, partendo dalla presa d’atto cosciente di stare provando una precisa emozione, consente al soggetto di farne una completa esperienza soggettiva oltre alla attivazione e gestione delle azioni di controllo e monitoraggio del proprio comportamento (agito e/o pensato) e il conseguente riaggiornamento dell’esperienza soggettiva (feedback circolare dinamico).

      Le variabili di Gross

      Gross ha individuato tre variabili che sono funzione del successo ottenuto nel processo di regolazione delle emozioni:

      • avere una utilità specifica e motivante (equivale alla risposta alla domanda: quanto utile risulterà adottare una strategia di regolazione delle emozioni?
      • la capacità di adozione efficace di una o più strategie tra quelle individuate da Gross e raccolte in cinque gruppi: selezione della situazione, modifica della situazione, distribuzione delle risorse attentive, ristrutturazione cognitiva e modulazione della risposta (equivale alla risposta alle domande: quanto sarò capace di adottare una strategia di regolazione? Saprò scegliere la più adatta? Quanto dipenderà dalla efficacia/efficienza della mia risposta e quanto dipenderà da fattori che non sono in alcun modo controllabili e quindi regolabili?
      • l’importanza accordata al risultato ottenuto o ottenibile (equivale alla domanda: il risultato che otterrò, migliorerà il mio benessere/attenuerà o eliminerà il mio malessere?
      Riconsiderazione cognitiva e soppressione

      In particolare, l’attenzione di Gross si è concentrata su due particolari tecniche: la riconsiderazione cognitiva (cognitive reappraisal), una delle strategie facente parte del gruppo “ristrutturazione cognitiva” e la soppressione (suppression) una delle strategie facente parte del gruppo “modulazione della risposta”. Diversi esperimenti condotti sia da Gross che da altri ricercatori hanno evidenziato che la riconsiderazione cognitiva risulterebbe più efficace della soppressione e che in molti casi la soppressione non produce risultati positivi.

      La ricerca però sembra suggerire che esistono strategie di regolazione emotiva tipicamente adattive e altre tendenzialmente disadattive. Tra le prime troviamo soprattutto la strategia della rivalutazione. La ricerca scientifica ha dimostrato che è possibile promuovere e potenziare lo sviluppo di queste funzioni, con correlate modificazioni al cervello e al sistema nervoso centrale, attraverso pratiche ed esercizi mirati sia nell’età evolutiva che nell’adulto.Tra queste pratiche, Gross ha posto una particolare enfasi sulla pratica mindfulness.

      Parkinson e Totterdell

      Secondo il modello proposto da Parkinson e Totterdell, le strategie di regolazione emotiva sono classificabili in funzione del tipo di strategia (cognitiva o comportamentale) e del riflesso che le sottende (fuga oppure attacco), in quest’ultima dimensione distinguendo a sua volta tra modalità diverse. La seguente tabella esemplifica il modello:

       

      Strategia cognitiva

      Strategia comportamentale

      Fuga per distacco

      Auto-ottundimento cognitivo: ridurre l’attività di pensiero tout court (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia)

      Evitamento fisico del fattore emotigeno (una delle strategie di selezione della situazione di Gross – 1° strategia)

      Fuga per distrazione

      Auto-ottundimento cognitivo specifico: ridurre l’attività di pensiero solo in riferimento al fattore emotigeno (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia)

      In presenza del fattore emotigeno, distrarsi. Fare finta che il fattore non c’è ovvero che è innocuo (una delle strategie di redistribuzione delle risorse attentive di Gross – 3° strategia) oppure non manifestare l’emozione o soppressione (una delle strategie di modulazione della risposta di Gross – 5° strategia)

      Attacco al fattore emotigeno

      Riconsiderazione cognitiva/cognitive reappaisal (una delle strategie della ristrutturazione cognitiva di Gross – 4° strategia)

      Manifestare l’emozione (una delle strategie di modulazione della risposta di Gross – 5° strategia)

      Attacco alla situazione che

      contiene il fattore emotigeno

      Avviare e sostenere il processo di problem solving (una delle strategie di modifica della situazione di Gross – 2° strategia)

      Agire concretamente sul problema (una delle strategie di modifica della situazione di Gross – 2° strategia)

      Richard Lazarus

      La teoria delle emozioni di R. Lazarus postula che un’emozione è la risultante dinamica di quattro processi distinti ma interdipendenti: valutazione, fronteggiamento, flusso di azioni e reazioni e attribuzione di significato alla relazione tra soggetto e oggetto (detto anche significato relazionale). parte dalla premessa che la funzione fondamentale delle emozioni è quella di segnalare se un dato comportamento è adatto all’ambiente, anche in funzione del mantenimento di uno stato di benessere e al pieno soddisfacimento dei nostri bisogni.

      Le emozioni facilitano o compromettono le relazioni interpersonali, soprattutto quelle intime. La rabbia può prevalere sulla tolleranza e portare a ritorsioni. Il senso di colpa e l’ansia possono minare la determinazione a realizzare qualcosa o ad affermare se stessi.

      Il coping

      Non c’è abilità di coping più utile come quella di sapere affrontare le relazioni interpersonali, specialmente quando queste relazioni sono travagliate. Anche se pensiamo di aver compreso il tipo di emozione che stiamo provando e cosa l’ha generata, spesso sbagliamo ad attribuire la sua causa e/o altrettanto spesso sbagliamo a stabilire il tipo di emozione che stiamo provando, e tutte le altre combinazioni che è possibile ricavare.

      Una caratteristica fondamentale delle emozioni è che spesso sono difficili da controllare, specialmente quando sono intense. La regolazione delle emozioni è una delle funzioni del coping.

      La valutazione

      La valutazione (appraising) è un processo cognitivo che consiste nella valutazione della natura e del significato di un fenomeno, che è poi la relazione che si instaura tra il soggetto e l’oggetto. Avviene in due momenti distinti, che Lazarus chiama primaria e secondaria. La primaria corrisponde ad una prima valutazione, in genere automatica, della rilevanza o salienza di ciò che sta accadendo attorno al soggetto. Il soggetto non ha ancora piena contezza di ciò che sta accadendo ma ha già valutato la situazione come potenzialmente minacciosa oppure che ha già prodotto un danno oppure se rappresenta una opportunità da cogliere. La secondaria corrisponde alla valutazione che il soggetto fa circa la propria capacità di fronteggiare non la situazione attuale (coping) bensì la propria capacità di fronteggiare la situazione potenziale futura (potential coping) che si determinerebbe in funzione del primo fronteggiamento.

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      Il fronteggiamento (coping) è un processo cognitivo e comportamentale di tipo strategico e pertanto finalizzato ad un obiettivo intenzionalmente diretto verso il soggetto oppure l’oggetto al fine di modificare la relazione e la rivalutazione della stessa.

      Il flusso di azioni e reazioni (flow of actions and reactions) è essenzialmente un processo comportamentale, fisico e verbale, osservabile oppure inferibile, che recluta abilità come l’empatia e la mentalizzazione.

      I temi relazionali fondamentali sono i significati che il soggetto attribuisce all’algoritmo relazionale che di volta in volta si determina nel flusso di azioni e reazioni. I temi relazionali fondamentali sono l’outcome del processo di attribuzione di significato alla relazione tra soggetto e oggetto (detto anche significato relazionale o relational meaning). Le tre componenti individuate da Lazarus e che costituiscono i temi relazionali fondamentali sono:

      • il coping potential (diverso dal coping);
      • il coinvolgimento dell’Io;
      • l’importanza dell’obiettivo da raggiungere. 

      Lazarus postula che i temi relazionali fondamentali rappresentino le determinanti prossimali delle emozioni. Abbiamo tanti temi relazionali fondamentali quante sono le emozioni fondamentali, che Lazarus indica nel numero di quindici. 

      Le emozioni fondamentali

      Le 15 emozioni fondamentali secondo Lazarus sono: rabbia, ansia, paura, colpa, vergogna, tristezza, invidia, gelosia, disgusto, felicità, orgoglio, sollievo, speranza, amore e compassione.
      Ad esempio: la rabbia ha come tema relazionale fondamentale un’offesa umiliante diretta al soggetto o a qualcuno/qualcosa che è caro al soggetto. Il riflesso/impulso/comportamento associato è l’aggressione (attacco).

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      La sregolatezza emotiva è inoltre associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD) e ancora a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello. La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità.

    • Attenzione

      attenzione

      Glossario di psicologia

      Attenzione

      Per saperne di più

      di Emanuele Fazio

      L’attenzione

      L’attenzione è una funzione mentale principalmente cosciente, che permette di selezionare e discriminare degli stimoli nell’ambiente trascurandone altri. Nel modello di Baddeley e Hirsth, è gestita dall’esecutivo centrale, che sovraintende inoltre le altre componenti quali il taccuino visuo-spaziale, il loop fonologico e il buffer episodico.
      Può essere rivolta volontariamente o richiamata in modo automatico dalle caratteristiche dello stimolo, ma rimane comunque un fenomeno di cui siamo generalmente consapevoli.

      Emanuele Fazio
      Psicologo a Roma Nord


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      L’attenzione seleziona gli stimoli e attiva i meccanismi che provvedono a immagazzinare le informazioni nei depositi della memoria a breve termine (MBT) e nella memoria a lungo termine (MLT). L’attenzione influenza anche l’efficacia delle prestazioni nei compiti di vigilanza.
      Un importante aspetto dello studio dei livelli di vigilanza è quello relativo al livello di attivazione o arousal: il livello di arousal è un fattore molto importante nell’efficienza di una prestazione o in un compito. A bassi livelli di arousal l’individuo si distrae facilmente, mentre a livelli elevati, l’arousal attiva l’ansia che ha un effetto dannoso sull’efficienza in quanto la distraibilità aumenta. Secondo la teoria dei livelli di attivazione esistono indici fisiologici del livello di attivazione come la riduzione del ritmo cardiaco, un aumento del diametro pupillare e della conduzione cutanea. L’attenzione e il livello di attivazione sono due processi correlati ma non si identificano l’uno con l’altro: l’attivazione può essere descritta come un dato globale dell’organismo che si svolge lungo un continuum, mentre l’attenzione è considerata come una funzione selettiva collegata con il livello di attivazione, ma che non coincide con esso. L’attenzione è un concetto multiforme che include:

      • Attenzione selettiva: riguarda la selezione di determinate informazioni lasciandone decadere altre. • Attenzione divisa: è la capacità di svolgere contemporaneamente compiti diversi tra di loro.
      • Attenzione sostenuta o vigilanza: è la capacità di prestare lungamente attenzione ad una certa fonte di informazioni.

      È possibile, infine, distinguere un’attenzione che si attiva a livello cosciente e un tipo di attenzione automatico o inconscia che registra automaticamente le informazioni provenienti dall’ambiente.

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      di Emanuele Fazio

      La Teoria Biosociale proposta da Marsha Linehan postula che la sregolatezza emotiva è determinata sia da fattori genetici predisponenti che dalle caratteristiche dell’ambiente nel quale il soggetto è cresciuto, in particolare nel periodo tra l’infanzia e l’adolescenza.
      Le caratteristiche principali dell’ambiente, che in associazione con i fattori genetici predisponenti determinano la sregolatezza emotiva, sono quelle che lo rendono sminuente.

      Emanuele Fazio
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      L’ambiente socio-familiare sminuente

      La Teoria Biosociale definisce come ambiente sminuente quello in cui le emozioni, i pensieri e i comportamenti sono giudicati dai genitori o altre figure affini o sostitutive come inopportuni, non in linea con l’etica sociofamiliare di appartenenza.
      Una persona geneticamente predisposta alla sregolatezza emotiva inizia a manifestare le proprie emozioni troppo spesso e in modo molto intenso.
      Ciò può indurre nei genitori o in altre figure affini o sostitutive, sentimenti di disagio e di incomprensione.
      In genere, queste risposte emotive intense e ipersensibili sono regolarmente ignorate oppure punite e giudicate insindacabilmente inappropriate o socialmente inaccettabili.
      Ma il comportamento emotivamente sregolato, soprattutto se l’emozione è stata repressa per lungo tempo, ottiene anche l’effetto di attirare la tanto agognata attenzione.
      Un meccanismo per molti versi assimilabile ai casi di isteria narrati da Freud ed epigoni.

      Il condizionamento operante

      Per effetto del condizionamento operante, la persona apprende che per attirare l’attenzione altrimenti negata o flebile, deve manifestare comportamenti emotivamente sregolati.
      Spesso riceve punizioni, ma qualche volta riceve per l’appunto l’agognata attenzione, che costituisce, secondo il modello dell’analisi del comportamento, una ricompensa.
      Ricompensare in modo saltuario un comportamento ha un potere rinforzante maggiore rispetto al ricompensare costantemente.
      Il risultato è che la manifestazione emotiva sregolata acquista sempre più probabilità di essere messa in atto.

      Per Linehan, un ambiente sminuente sortisce anche l’effetto di non far ben comprendere alla persona che tipo di emozione sta provando in quel preciso momento.
      Infatti, tra le skill DBT insegnate ai clienti, vi è quella di comprendere e dare un nome alla propria emozione.

      Ancora sull’ambiente sminuente

      Secondo la Teoria Biosociale, un altro effetto di un ambiente sminuente è l’ipersemplificazione del processo di problem solving, per cui l’emozione negata, non riconosciuta, sminuita o punita non apporta valenza informativa saliente all’evento che si sta vivendo, per cui la scelta della risposta più appropriata è delegata alla valutazione effettuata dai soli processi cognitivi.
      Il che non sarebbe del tutto limitante, laddove le emozioni apportassero scarsa valenza informativa, come si è sempre creduto prima che Antonio Damasio pubblicasse L’errore di Cartesio e stimolasse l’avvio di un campo di ricerca molto fruttuoso.

      A causa dello straripamento emotivo in atto, che riduce l’efficacia dei circuiti cognitivi, la persona è costretta a fare ricorso, nel migliore dei casi, a cognizioni automatiche (ad esempio le euristiche) ma più frequentemente, soprattutto in soggetti clinici, a risposte impulsive, guidate da riflessi primari come il riflesso attacca o fuggi o il riflesso di freezing.

      La sregolatezza emotiva nei soggetti borderline

      Nei soggetti borderline, ma non solo in essi, lo straripamento emotivo è preceduto o è parallelo al tentativo di regolare l’espressione emotiva per il tramite di comportamenti quali ad esempio il tentativo di suicidio, l’autolesionismo non suicidario attuato attraverso tagli o bruciature inflitti agli arti superiori, inferiori o altre parti del corpo, l’abuso di sostanze oppure la messa in atto di comportamenti ritenuti compensatori, come la promiscuità sessuale, furti, litigi, guida spericolata di veicoli ed altri ancora.

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    • Il disturbo borderline di personalità

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      Psicologia individuale

      Il disturbo borderline di personalità

      Analisi di un fenomeno psicopatologico

      di Emanuele Fazio

      Il disturbo borderline di personalità è una psicopatologia che coinvolge generalmente almeno due dei quattro domini del funzionamento psicosociale di un individuo: cognitivo, emotivo/affettivo, relazionale e comportamentale (in particolare il comportamento riflesso o impulsivo).
      Ciascuno dei quattro domini è ulteriormente scindibile in sottodomini. Per quanto attiene il dominio cognitivo, ad essere compromesso è il sistema di credenze riguardo al sé e la capacità di regolare le emozioni.

      Emanuele Fazio
      Psicologo a Roma Nord


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      psicologo a roma nord

      I criteri diagnostici del DBT

      Al pari degli altri disturbi di personalità, il disturbo borderline implica che almeno due dei quattro domini siano disfunzionali, cioè poco o per nulla conformi a ciò che ci si aspetterebbe da un individuo sufficientemente ben integrato e adattato al contesto socioculturale.
      La disfunzione deve essere costante e inoltre difficile, se non impossibile, da ricondurre entro norma da parte dell’individuo, da solo o con l’aiuto di altri non professionisti.
      Nella sua forma cristallizzata dai manuali diagnostici, il disturbo borderline della personalità esordisce durante l’adolescenza o la prima età adulta, sebbene spesso è possibile prevederlo[1] in presenza di fattori di rischio transdiagnostici o di altri sintomi e/o patologie che fungono da possibili precursori, mediatori o moderatori.

      Per trarre diagnosi di disturbo borderline di personalità è necessario che siano soddisfatti almeno cinque su nove cortei sintomatologici tra domini e sottodomini come di seguito elencati.

      Dominio cognitivo e cognitivo/comportamentale
      Scarsa conoscenza di sé stessi

      Il soggetto borderline non riesce a dare a sé stesso e agli altri una descrizione esaustiva e coerente della personalità e del carattere. Allo stesso modo in cui può giudicare una persona appena conosciuta la migliore persona del mondo e dopo brevissimo tempo la peggiore mai conosciuta, la sua capacità di autostima vira repentinamente da un’elevata considerazione di sé (a prescindere dal vero valore) fino a ritenersi assolutamente privo di valore.

      Ideazione paranoide e/o sintomi dissociativi

      Con il termine ideazione paranoide si intende uno o più pensieri ricorrenti e invasivi caratterizzati da sospettosità nei confronti degli altri, immaginati come persecutori o comunque intenzionati a fare del male (non necessariamente di tipo fisico) al soggetto borderline.
      Con il termine sintomi dissociativi, in particolare quelli più comuni tra i soggetti borderline, si intende principalmente la depersonalizzazione e la derealizzazione.
      La depersonalizzazione è la sensazione di sentire la propria mente come separata dal proprio corpo, in grado quindi di osservarlo come se fosse il corpo di un altro oppure sentire la propria mente come se fosse quella di un altro.
      La derealizzazione è invece sentire come estranea e irreale la realtà del mondo esterno, quasi come se si trattasse di un sogno.
      In genere tale corteo sintomatico è di breve durante ed emerge a seguito di un forte stress o trauma.

      Senso di vuoto

      Il soggetto borderline non riesce a stare impegnato in qualcosa ed è costantemente alla ricerca di qualcos’altro da fare, e che possa alleviare il sentimento di noia o di smania che lo pervade.
      Il senso di vuoto in genere predice il ricorso a comportamenti impulsivi (vedi anche sintomi comportamentali) quali l’abuso di sostanze, l’abuso di comportamenti (stare per troppo tempo sui social o su internet) ma anche, qualora il soggetto esca di casa, fare shopping compulsivo, ricercare rapporti sessuali, guida spericolata e ricorso compulsivo a cibo e/o alcol.

      Dominio emotivo/affettivo
      Sentimento ricorrente di essere abbandonati o trascurati da persone che sono ritenute importanti, anche se conosciute da pochissimo tempo e in modo ancora superficiale

      Tale sentimento, agli occhi di un osservatore esterno, può essere sia motivato che del tutto immotivato. A seguito di questo sentimento si determinano reazioni emotive incontrollate e comportamenti impulsivi altrettanto fuori controllo, finalizzati all’evitamento dell’abbandono ma che spesso finiscono proprio per agevolarlo oppure a renderlo più probabile.
      I principali comportamenti impulsivi riguardano soprattutto tentativi di suicidio (o minaccia realistica di metterli in atto) e autolesionismo non suicidario.
      Data l’imprevedibilità dei soggetti borderline, ed anche in funzione di altri sintomi e/o di altri disturbi mentali e di personalità in comorbidità, il soggetto può aggredire e anche uccidere la persona che egli crede stia per abbandonarlo.
      Il livello di aggressività dipende quasi sempre dall’ entità dell’investimento affettivo che il soggetto borderline aveva fatto sulla persona.
      Pertanto, a maggior rischio anche di morte, sono tutte quelle persone che il soggetto, anche se idealmente, aveva elevato come molto significative (alto investimento affettivo).
      Con persone nei confronti delle quali il soggetto borderline aveva investito meno (seppur in modo sproporzionato date le circostanze), il soggetto borderline mette in atto litigi, anche violenti, oppure evitamento rabbioso e risentito, con o senza manifestazioni dirette e/o immediate.

      Sregolatezza emotiva

      Intesa come sbalzi dell’umore repentini e imprevedibili, la sregolatezza emotiva è una risposta a stimoli comunemente non ritenuti emotigeni (principalmente durante l’interazione diretta o indiretta con altre persone) ma ritenuti tali dal soggetto borderline.
      Può trattarsi di euforia e gioia incontenibile, ma più frequentemente si tratta di tristezza, di ansia oppure di paura.
      La rabbia costituisce un sintomo a sé.

      Sregolatezza emotiva riferita alla sola rabbia

      Improvvisa aggressività nei confronti di qualcuno presente oppure assente determinata da uno stimolo. Lo stimolo può essere anche pensato e quindi non presente nella realtà oppure presente ma comunemente non ritenuto emotigeno.

      Dominio relazionale
      Relazioni interpersonali caratterizzate da distanziamento sociale inappropriato

      I soggetti borderline non hanno semplici conoscenti ma solo grandi amici e appassionati amanti (anche se appena conosciuti) con cui sono pronti a condividere emozioni, esperienze e segreti e da cui pretendono pari confidenza.
      Stante tuttavia la mancata reale conoscenza dell’altro, equivocano sistematicamente ogni parola, gesto o comportamento, senza trascurare quello non verbale e prossemico.
      Poiché l’empatia è un sentimento con una elevata matrice cognitiva, la sregolatezza emotiva che ottunde i circuiti cerebrali preposti alla valutazione cognitiva impedisce al soggetto borderline di mettersi nei panni dell’altro, attribuendogli pertanto stati mentali erronei, e generalmente negativi.

      Dominio comportamentale
      Ideazione suicidaria e/o autolesionismo non suicidario

      È interessante rilevare che la richiesta di aiuto da parte dei soggetti borderline scatta in genere all’indomani di un tentativo di suicidio. Anche quando la richiesta di aiuto viene formalizzata da parenti oppure da autorità intervenute dopo il gesto, il soggetto borderline generalmente condivide l’interessamento di terzi.

      Comportamenti impulsivi

      Come in parte anticipato parlando del senso di vuoto, i comportamenti impulsivi tipici del soggetto borderline sono shopping compulsivo (in particolare sostenendo spese non parametrate al proprio reddito oppure al buon senso), ricerca di partner sessuali occasionali, abuso di sostanze e/o comportamenti, guida spericolata (con radio a tutto volume e spesso dopo uso di sostanze), abuso di cibo e/o alcol. I comportamenti impulsivi devono essere almeno due.

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    • La sregolatezza emotiva

      la sregolatezza emotiva

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      La sregolatezza emotiva

      I fattori di rischio della salute mentale

      di Emanuele Fazio

      La sregolatezza emotiva è stata definita come l’incapacità di incrementare, mantenere o diminuire (in una sola parola: regolare) le emozioni, sia positive che negative. Il risultato è quello di rendere difficoltoso oppure impossibile il raggiungimento di un obiettivo desiderato ovvero l’adattamento psicofisico e specie-specifico alle situazioni socio-ambientali che si determinano attorno al soggetto.
      Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto.
      Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone occasioni, il manifestare gioia in contesti inappropriati, arrabbiarsi per futili motivi.

      Emanuele Fazio
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      Psicologo a Roma nord

      La regolazione delle emozioni

      Un elemento fondamentale delle emozioni è quindi la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui è possibile mediare o moderare le nostre emozioni.
      La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche relazionali.
      Esse costituiscono il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.
      Esistono diversi modelli di regolazione delle emozioni come ad esempio quello di Gross, quello di Parkinson e Totterdell e quello di Richard Lazarus.

      In un altro articolo affronto con maggiore dettaglio il tema della regolazione delle emozioni.

      Sregolatezza e psicopatologia

      La sregolatezza emotiva è associata a numerosi disturbi di tipo somatico e comportamentale, tra questi ultimi soprattutto le dipendenze. Inoltre, è associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Inoltre è associata a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello.
      La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria biosociale proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità. La terapia dialettico comportamentale prevede l’insegnamento di opportune life skill per migliorare la regolazione emotiva.

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      Si tratta di risposte inappropriate data la valenza dello stimolo e/o il contesto.
      Alcuni esempi sono l’eccesso d’ira, i timori infondati, il non riuscire a riconoscere e a cogliere le buone occasioni, il manifestare gioia in contesti inappropriati, arrabbiarsi per futili motivi.

      Indice

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        La regolazione delle emozioni

        Un elemento fondamentale delle emozioni è quindi la loro regolazione. Per regolazione delle emozioni si intende in generale l’insieme dei processi attraverso cui è possibile mediare o moderare le nostre emozioni.
        La regolazione delle emozioni e l’autocontrollo sono funzioni cruciali per affrontare efficacemente le complesse dinamiche relazionali.
        Esse costituiscono il principale ingrediente del benessere fisico e psicologico.
        Esistono diversi modelli di regolazione delle emozioni come ad esempio quello di Gross, quello di Parkinson e Totterdell e quello di Richard Lazarus.

        In un altro articolo affronto con maggiore dettaglio il tema della regolazione delle emozioni.

        Sregolatezza e psicopatologia

        La sregolatezza emotiva è associata a numerosi disturbi di tipo somatico e comportamentale, tra questi ultimi soprattutto le dipendenze. Inoltre, è associata a disturbi di personalità come il disturbo borderline oppure a disturbi dell’umore come il disturbo bipolare, oppure a disturbi del neurosviluppo come i disturbi dello spettro dell’autismo e i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Inoltre è associata a traumi psicologici oppure a disturbi neurologici, come nel caso di traumi fisici che interessano il cervello.
        La sregolatezza emotiva è uno dei principali fattori che, secondo la teoria biosociale proposta da Marsha Linehan, sono all’origine del disturbo borderline di personalità. La terapia dialettico comportamentale prevede l’insegnamento di opportune life skill per migliorare la regolazione emotiva.

      • Terapia dialettico comportamentale: uno sguardo d’insieme

        la teoria dialettico comportamentale

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        Terapia dialettico comportamentale

        Uno sguardo d’insieme

        di Emanuele Fazio

        La terapia dialettico comportamentale

        La terapia dialettico comportamentale (DBT) mette al centro del suo modello terapeutico l’assunto filosofico della dialettica, unitamente alle tecniche psicologiche proprie del comportamentismo.
        L’assunto filosofico della dialettica, che attinge a piene mani al pensiero del filosofo greco Eraclito. postula che:

        • la realtà è formata da opposti;
        • gli opposti sono entrambi veri;
        • non c’è niente di permanente tranne il cambiamento.

        La via di uscita dal disagio psicologico inizia quando si accetta che i tre assunti prima detti sono veri.

        Emanuele Fazio
        Psicologo a Roma Nord


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        Uno sguardo ai principali pilastri della DBT

        La terapia dialettico comportamentale si regge su tre grandi pilastri filosofici e scientifici, sui quali si costruisce la relazione d’aiuto:

        Tutte le cose sono interconnesse. 

        Tutto e tutti sono interconnessi e interdipendenti. Siamo tutti parte di una grande comunità dove ognuno ha bisogno dell’altro per raggiungere uno stato di benessere e di felicità;

        Il cambiamento è costante e inevitabile. 

        Non si tratta di un’idea nuova. Eraclito diceva che l’unica certezza nella vita è il cambiamento. La vita è piena di sofferenza, ma poiché il cambiamento esiste, essendo il cambiamento l’unica cosa di cui puoi essere certo, anche la tua sofferenza cambierà;

        Gli opposti si integrano per formare un’approssimazione più fedele alla realtà. 

        Questo è il principio cardine della dialettica. Una sintesi dialettica unisce la tesi (un’idea) e l’antitesi (il suo opposto). Nell’elaborare la sintesi delle due idee, il processo non introduce mai un nuovo concetto che non si trovi né nella tesi né nell’antitesi. A rigor di logica, la sintesi incorpora un concetto della tesi e uno dell’antitesi.

        Come funziona la DBT?

        La terapia dialettico comportamentale fu originariamente sviluppata da Marsha Linehan per il trattamento di persone che lottavano con comportamenti autodistruttivi e suicidari, e che successivamente diventò il trattamento primario per la condizione nota come disturbo borderline di personalità (BPD). Il trattamento è accettato da molti terapeuti e clienti, non solo perché è molto utile, ma perché integra elementi biologici, ambientali, spirituali e comportamentali. È anche unico, poiché bilancia la necessità del cambiamento di una persona con la necessità di accettare contemporaneamente ciò che si è nel momento presente.
        Sebbene la terapia dialettico comportamentale sia stata originariamente progettata per trattare l’ideazione suicidaria e l’autolesionismo, si è successivamente rivelata utile per altre tipologie di disturbi.
        Infatti, la terapia dialettico comportamentale è molto utile per chiunque abbia problemi di regolazione delle emozioni, anche se la causa non è correlata a una malattia psichiatrica.
        Grazie al suo successo nell’aiutare le persone a imparare a gestire le proprie emozioni in modo più efficace, la teoria dialettico comportamentale è diventata un trattamento molto richiesto anche da persone senza alcuna diagnosi di disturbo mentale, ma semplicemente interessate a migliorare la gestione dello stress e la qualità delle loro relazioni interpersonali.

        Una terapia modulare

        La terapia dialettico comportamentale prevede la somministrazione del trattamento attraverso quattro moduli.

        Terapia individuale: in questo modulo, il terapeuta lavora con il cliente per applicare le abilità o skill apprese durante il lavoro di gruppo.

        Skill training di gruppo: in questa modalità, insieme a un gruppo di altre persone, vengono insegnate nuove abilità comportamentali, completati i compiti per casa e svolti giochi di ruolo per apprendere nuovi modi di interagire con gli altri.

        Assistenza telefonica: in questa modalità, si può chiamare il terapeuta tra una sessione e l’altra per ricevere indicazioni su come affrontare situazioni difficili che dovessero nel frattempo presentarsi.

        Consultazione tra terapeuti: in questa modalità, il singolo terapeuta incontra altri terapeuti DBT. Questi incontri aiutano i terapeuti a risolvere questioni difficili e complesse che emergono durante la terapia, agevolando lo scambio di idee e consigli su cosa fare quando la terapia segna il passo.

        Le cinque funzioni del trattamento

        La terapia dialettico comportamentale è un programma di trattamento modulare. In questo modo, la DBT è un insieme di trattamenti, piuttosto che un singolo metodo di trattamento condotto da un singolo terapeuta su un singolo cliente. Qualsiasi programma, qualunque cosa si scelga di fare, dovrebbe affrontare cinque funzioni chiave del trattamento:

        Aumentare la motivazione al cambiamento

        Cambiare i comportamenti autodistruttivi e disadattivi può essere molto difficile ed è facile scoraggiarsi. Il terapeuta individuale lavora con il cliente per assicurarsi che rimanga in carreggiata e riduca tutti i comportamenti che sono incoerenti con una vita degna di essere vissuta. All’interno della terapia individuale e di gruppo, il terapeuta chiede di monitorare i comportamenti e utilizzare eventualmente anche l’assistenza telefonica per raggiungere l’obiettivo.

        Migliorare le proprie capacità

        La terapia dialettico comportamentale presuppone che le persone che lottano manchino o abbiano bisogno di migliorare diverse importanti life skill, comprese le abilità che aiutano a regolare le emozioni, a prestare attenzione all’esperienza del momento presente, a muoversi efficacemente nelle relazioni interpersonali e, infine, ad essere in grado di tollerare lo stress.

        Applicare ciò che si è imparato in terapia alla vita quotidiana

        Se le abilità che si apprendono nelle sessioni di terapia di gruppo e individuali non sono praticate efficacemente nella vita quotidiana, allora sarà difficile dire che la terapia ha avuto successo nell’affrontare i problemi del cliente.

        Strutturare il contesto socio-familiare in modo da potenziare la crescita personale

        Una funzione importante è quella di assicurarsi di non ricadere in comportamenti disadattivi o problematici o, se lo si fa, di assicurarsi che l’impatto non sia duraturo. Strutturare il trattamento in modo da promuovere i progressi verso il tuo obiettivo è un modo per farlo. In genere, come terapeuta individuale mi assicurerò che tutti gli elementi di un trattamento efficace siano adatti alla tua esperienza di vita. A volte, se non sei ancora abbastanza abile per farlo da solo, potrò intervenire ma con la consapevolezza reciproca che tale intervento è temporaneo fino a quando non avrai acquisito le competenze necessarie.

        Aumentare la motivazione e la competenza del terapeuta

        Anche se aiutare le persone che arrivano in terapia con diverse richieste può essere molto gratificante, i comportamenti che le persone mettono in atto durante le sessioni possono affaticare il terapeuta, che avrà quindi bisogno di aiuto: è qui che entra in gioco il team di consultazione di cui si parlava prima.

        Il quadro teorico della DBT

        La teoria biosociale

        La teoria biosociale della dottoressa Linehan afferma essenzialmente che le persone che lottano per regolare le proprie emozioni lo fanno a causa dell’influenza reciproca tra la natura[1] di quella persona – che la rende più emotivamente sensibile, reattiva e più lenta a ritornare al suo standard emotivo – e quello che Linehan ha definito il contesto socio-familiare sminuente.
        Un contesto socio-familiare sminuente è quello in cui le esperienze emotive di un bambino non sono riconosciute come importanti oppure non sono tollerate dalle persone significative che gli sono vicine.
        In genere, accade che:

        • le esperienze emotive di un bambino non vengono prese in considerazione;
        • il bambino ha un’escalation emotiva esplosiva e spesso violenta (anche nei confronti di se stesso) nel tentativo di ricevere attenzione e accudimento;
        • il bambino riceve attenzione e accudimento;
        • il bambino impara che deve esibire una sregolatezza emotiva per essere ascoltato.

        Invece, quando viene punito per aver espresso le sue emozioni[2], il bambino potrebbe tentare di regolarsi usando comportamenti come l’autolesionismo. Questo, a sua volta, porta a un’emotività ancora maggiore, poiché il bambino sperimenta vergogna e senso di colpa.

        La teoria comportamentale

        La teoria comportamentale spiega il comportamento umano analizzando gli antecedenti e le conseguenze del comportamento.
        Gli antecedenti sono gli eventi, le situazioni, le circostanze, le emozioni e i pensieri che hanno preceduto il comportamento – in altre parole, gli eventi che stavano accadendo prima che il comportamento si verificasse – mentre le conseguenze del comportamento sono le azioni o le risposte che seguono il comportamento.
        È nella comprensione degli elementi che causano la manifestazione dei comportamenti – e anche nella comprensione di ciò che fa andare avanti i comportamenti – che la teoria comportamentale viene applicata, al fine di ridurre i comportamenti disadattivi e aumentare le risposte adattive.
        Un elemento importante di questa teoria è che i comportamenti disadattivi vengono mantenuti perché una persona non ha le capacità per un funzionamento più flessibile.
        Ciò avviene a causa di problemi nell’elaborazione delle emozioni e dei pensieri, motivo per cui c’è molta enfasi sull’utilità dell’insegnamento delle skill per evitare la sregolatezza emotiva.

        La filosofia dialettica

        Essenzialmente, la teoria dialettica afferma che la realtà è un insieme di forze interconnesse e correlate, molte delle quali in opposizione l’una all’altra. È la sintesi continua di forze, idee o concetti opposti che definisce la dialettica.

        Le cinque fasi di trattamento della DBT

        La teoria dialettico comportamentale si compone di cinque fasi di trattamento:

        Pretrattamento

        Questo è il periodo di tempo in cui la persona si impegna direttamente con se stessa e con il proprio terapeuta a iniziare la terapia dialettico comportamentale. In questa fase di pretrattamento, il paziente scrive un elenco di comportamenti problematici che interferiscono con il suo ideale di vita, attribuendo a ciascun comportamento un grado o valore di rilevanza.

        Fase 1

        In questa fase, l’obiettivo principale è quello di ridurre i comportamenti più gravi e che hanno un grande impatto sulla vita di una persona. Si tratta di comportamenti che interferiscono:

        • con la terapia come essere in ritardo alle sessioni o non completare i compiti a casa
        • con la qualità della vita come l’abuso di sostanze e trovarsi coinvolti in relazioni interpersonali dolorose.
        Fase 2

        In questa fase, la persona si concentra su quelle esperienze emotive che potrebbero essere collegate all’infelicità e al disagio che sta provando.

        Fase 3

        In questa fase, vengono affrontati problemi residui ma non meno importanti, come la noia, il senso di vuoto, il lutto e gli obiettivi di vita.

        Fase 4

        In questa fase finale, la persona approfondisce la consapevolezza di sé e il proprio senso di incompletezza, diventando più spiritualmente appagata e riconoscendo che la maggior parte della felicità risiede all’interno del sé.

        Le 4 skill della DBT

        La DBT presuppone che molti dei problemi si verificano perché le persone non hanno, o non possono usare in modo efficace, le skill per gestire situazioni emotivamente importanti.
        Più specificamente, l’incapacità di utilizzare un comportamento efficace quando è necessario è spesso il risultato della non conoscenza della skill ad esso associata, oppure di come utilizzarla. Coerentemente con quanto appena detto, è stato dimostrato che l’uso delle skill DBT porta a un miglioramento dell’umore e migliora la regolazione delle emozioni e l’interazione con le altre persone. Ecco le 4 skill:

        Mindfulness

        In parte derivata dallo Zen e dalle pratiche meditative orientali, la DBT insegna alle persone l’importanza di essere consapevoli. In altri articoli rispondo alle domande: “Come faccio a praticare la mindfulness?” e “Come faccio a mettere in atto queste skill di mindfulness?”

        Efficacia interpersonale

        La DBT insegna i modi più efficaci per:

        • ottenere dagli altri e da sé stessi ciò di cui si ha bisogno e che si vuole;
        • ridurre i conflitti interpersonali, migliorando o risolvendo le relazioni difficili e complicate;
        • saper dire “no” a richieste irragionevoli.

        L’obiettivo è aiutare una persona ad avere il massimo rispetto di sé, migliorare la proprie strategie di coping e riconoscere i propri bisogni e quelli degli altri come entrambi importanti.

        Tolleranza allo stress

        Mentre molti approcci al trattamento della salute mentale si concentrano sul cambiamento delle situazioni stressanti, la DBT si concentra sull’insegnamento delle skill che consentono alle persone di tollerare queste situazioni, spesso cariche di dolore emotivo o angoscia. L’insegnamento punta anche a evidenziare la distinzione tra l’accettazione della realtà così com’è e l’approvazione di questa realtà.

        Regolazione emotiva

        Al centro di molti dei problemi in cui la DBT è efficace c’è la scoperta che le persone che lottano per regolare le proprie emozioni non hanno la capacità di farlo in modo efficace. L’obiettivo di questo modulo di skill è quello di

        • far sì che le persone sappiano quale emozione stanno vivendo;
        • quali sono i fattori di rischio che rendono una persona vulnerabile e quindi vulnerabile alla sregolatezza emotiva;
        • quali sono le funzioni delle emozioni;
        • come regolare le emozioni quando queste sono asimmetriche rispetto alla situazione.

        Come funziona il trattamento DBT

        Come in parte già accennato, un trattamento DBT completo comprende:

        • la terapia di sostegno e/o di abilitazione/riabilitazione individuale;
        • la formazione di gruppo sulle skill;
        • il coaching telefonico.

        Le sessioni di gruppo si tengono in genere una volta alla settimana e durano due ore e mezza. Nel gruppo vengono insegnati i quattro moduli di abilità menzionati nella sezione precedente:

        • mindfulness;
        • efficacia interpersonale;
        • tolleranza allo stress;
        • regolazione delle emozioni.

        In genere ci vogliono sei mesi per completare tutti i moduli, ma molte persone che fanno un trattamento di skill DBT lo proseguono attraverso la partecipazione al gruppo di formazione avanzato.

        Nella sessione di gruppo, la prima ora è dedicata alla visione dei compiti assegnati la settimana precedente, mentre il restante tempo viene utilizzato per l’apprendimento, l’insegnamento e la pratica di nuove skill.
        Nella terapia individuale, le skill apprese durante le sessioni di gruppo vengono esaminate nel contesto delle esigenze e degli obiettivi di trattamento individuali della persona.
        Mentre nella terapia di gruppo la persona apprende le skill praticandole con gli altri componenti, nella terapia individuale apprende a generalizzarle, cioè a calarle nel contesto specifico e personale con il quale si confronta quotidianamente.

        Trattamento di condizioni specifiche

        La maggior parte degli studi di efficacia delle skill DBT sono stati effettuati reclutando persone con il disturbo borderline di personalità; tuttavia, le skill DBT sono state studiate in molte altre condizioni. Ad esempio, è stato dimostrato che le skill DBT hanno un certo grado di efficacia, da sole o in combinazione con altre terapie comportamentali, per condizioni come le seguenti:

        • calo dell’umore e stati depressivi;
        • ansia e fobie;
        • uso e abuso di sostanze e/o comportamenti;
        • comportamento alimentare non idoneo

        E in popolazioni diverse, come ad esempio:

        • popolazione carceraria;
        • persone con disabilità anche gravi;
        • familiari di persone con disturbo borderline di personalità;
        • studenti di ogni ordine e grado con difficoltà di apprendimento e/o di socializzazione.

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        le skill della terapia dialettico comportamentale

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        Le skill della terapia dialettico comportamentale

        Approfondiamo il concetto di skill

        di Emanuele Fazio

        Le skill della terapia dialettico comportamentale

        Le skill della terapia dialettico comportamentale sono abilità, competenze, strategie e capacità che se apprese, riapprese o migliorate permettono alla persona di affrontare con successo le sfide delle quotidianità.
        L’apprendimento delle skill è solo uno dei quattro punti in cui si articola il programma terapeutico della terapia dialettico comportamentale (BDT), ma ne costituisce in un certo senso la struttura portante.

        Emanuele Fazio
        Psicologo a Roma Nord


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        Psicologo a Roma nord

        Le parole di Marsha Linehan

        Imparare le skill della BDT[…] aiuta le persone a navigare più efficacemente nel mare delle loro vite incredibilmente stressanti.
        Le vite delle persone sono in genere caratterizzate da traumi e microtraumi emotivi, come subire critiche o rimproveri sul posto lavoro, litigare con il partner anche per futili motivi, ubriacarsi dopo che si era giurato di non bere più alcolici, autostimarsi in modo eccessivamente positivo o eccessivamente negativo, acquisire consapevolezza dell’incapacità di creare buone amicizie o di interrompere quelle cattive, acquisire consapevolezza dell’incapacità di raggiungere obiettivi anche semplici (come convincere il tuo vicino a prestarti il suo tosaerba).
        Il ruolo delle skill BDT è pertanto quello di offrire alle persone modi pratici di:

        • accettare il problema che in quel momento stanno affrontando;
        • risolvere il problema.
        Quattro tipologie di skill DBT

        Le skill della terapia dialettico comportamentale sono tattiche e strategie apprese per accettare il problema, risolverlo e migliorare la qualità della vita delle persone.

        Marsha Linehan suddivide le skill DBT in quattro moduli: i primi due sono funzionali all’accettazione del problema, i restanti due alla sua risoluzione.

        Questi sono i quattro moduli:

        Modulo 1
        Skill di mindfulness
        (accettazione)
        Utili per ridurre la sofferenza e aumentare la felicità
        Modulo 2
        Skill di tolleranza dello stress
        (accettazione)
        Utili per gestire lo stress e le crisi nervose, per avere la mente serena, necessaria a risolvere i problemi che causano lo stress e le crisi nervose
        Modulo 3
        Skill per evitare la sregolatezza emotiva
        (risoluzione)
        Utili per evitare quei comportamenti impulsivi che danneggiano ulteriormente la situazione
        Modulo 4
        Skill per migliorare le relazioni interpersonali
        (risoluzione)
        Utili per farsi amare, rispettare, considerare positivamente.

         

        Accettare e migliorare sé stessi: gli obiettivi fondamentali delle skill della terapia dialettico comportamentale

        Gli obiettivi fondamentali delle skill della terapia dialettico comportamentale sono due:

        • l’accettazione di sé stessi e della propria situazione esistenziale fotografata ad oggi
        • il miglioramento[2] di questa situazione esistenziale.

        Un mantra potrebbe essere il seguente: oggi la situazione è questa, e non è una situazione che mi soddisfa. È necessario migliorarla. Tuttavia la situazione fotografata ad oggi la devo sentire come mia, non mi deve essere estranea, perché è una situazione reale oppure che ha (almeno per me) i crismi della realtà. Se devo afferrare un oggetto, devo poter contare sul fatto che la mano è la mia. Sarà pure una mano maldestra, suscettibile di miglioramento, ma devo

        • accettare ineluttabilmente che la mano maldestra è la mia
        • tentare di migliorare la presa.

        I concetti di accettazione e miglioramento sono approfonditi altrove in questo blog. Per adesso, limitiamoci a dire che accettazione e miglioramento sono due obiettivi a prima vista inconciliabili, pressoché opposti.

        Le parole di Marsha Linehan

        Scoprii molto presto, mentre sviluppavo le skill della terapia dialettico comportamentale, che se io mi concentravo ad aiutare i pazienti a migliorare il loro comportamento (che è ciò a cui generalmente mira la terapia comportamentale), i pazienti protestavano, dicendo qualcosa come “Cosa? Mi stai dicendo che sono io il problema”?
        Viceversa, se mi concentravo ad insegnare ai pazienti a sopportare la loro situazione, in pratica ad accettarla, questi mi dicevano “Cosa? Non mi vuoi aiutare”?
        La soluzione a cui giunsi fu quella di trovare un modo di mantenere in equilibrio sia l’accettazione che il miglioramento, facendo loro danzare una danza vorticosa: avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Mantenere l’equilibrio tra strategie di accettazione e strategie di miglioramento è la strategia base della DBT, ed è esclusivo della DBT. Questa enfasi sull’accettazione come contrappeso al miglioramento è il risultato dell’integrazione tra pratica orientale (Zen), per come ne ho fatto esperienza, e la pratica psicologica occidentale.

        Tesi, antitesi e sintesi

        Conciliare gli opposti facendoli danzare vorticosamente tanto da farli dipendere l’uno dall’altro per produrre una danza vorticosa e spettacolare equivale al concetto di dialettica, nella sua accezione hegeliana, cioè:

        1. la dialettica è il passaggio da un opposto all’altro;
        2. questo passaggio è la conciliazione (o sintesi) dei due opposti;
        3. la conciliazione è necessaria.

        Fuor di metafora, la danza spettacolare è la sintesi, cioè la conciliazione dei due opposti, e corrisponde pertanto alla guarigione del paziente o al miglioramento della sua qualità di vita.

        Le strategie di accettazione e di miglioramento: introduciamo il concetto di life skill

        Life skill è un sintagma di cui si sente parlare spesso. Secondo il dizionario dell’APA, con skill si intende una capacità, abilità, competenza o talento acquisita attraverso la formazione e la pratica (ma anche, in tutto o in parte, posseduta dalla nascita). Ovviamente, una skill non è come il coraggio per Don Abbondio, che la si ha oppure no. Esistono vari gradi di skill, come pure si è diversamente skill o con skill altre o alternative.

        Le life skill sono invece quelle skill socio-relazionali che permettono alle persone di affrontare in maniera efficace le esigenze che derivano dal nostro semplice essere al mondo, un mondo caratterizzato da una rete sociale interconnessa e necessaria.

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        Memoria

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        di Emanuele Fazio

        La memoria

        La memoria è la facoltà del cervello grazie alla quale molta della nostra esperienza viene trattenuta, codificata, immagazzinata e all’occorrenza decodificata e recuperata. Deriva dal latino memor, con il significato di che si ricorda, derivato a sua volta da una radice sanscrita e presente anche nel greco classico μνημη (mneme).

        La memoria è la custodia delle informazioni apprese durante il corso di vita, al fine di utilizzarle nel presente e per quanto riguarda la specie umana, fare previsioni e adottare decisioni in merito a possibili eventi futuri, sia prossimi che anteriori.

        Senza il ricordo degli eventi passati, non sarebbe stato possibile lo sviluppo del linguaggio, della cultura, delle relazioni sociali, dell’identità personale e sociale.

        Emanuele Fazio
        Psicologo a Roma Nord


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        blog di psicologia

        Che cos’è la memoria

        La memoria è spesso intesa come un sistema di elaborazione delle informazioni con funzionamento in modalità esplicita e implicita, e che coinvolge funzioni cognitive come la sensazione[1], la percezione, l’apprendimento, le emozioni e molte altre ancora. A sua volta la memoria viene coinvolta nelle stesse funzioni, siano esse cognitive, emotive e comportamentali.

        Memoria individuale e collettiva

        Una prima suddivisione dei diversi tipi di memoria è quella tra memoria individuale e memoria collettiva. La prima elabora informazioni che derivano dall’esperienza del singolo mentre la seconda elabora informazioni che sono condivise tra più individui e che pertanto confluiscono in un particolare magazzino chiamato cultura, in stretta relazione con altri fenomeni come il linguaggio, la comunicazione, l’espressione artistica, la religione.

        Memoria di lavoro e memoria a lungo termine

        I sistemi sensoriali – vista, udito, olfatto, gusto, tatto, propriocezione[2], sistema vestibolare e interocezione – consentono di rilevare informazioni dal mondo esterno alla mente e sotto forma di stimoli fisici e chimici. I sistemi sensoriali sono inoltre coinvolti nei vari livelli di processamento delle informazioni. Come si diceva prima, la memoria fa parte di questo complesso meccanismo di processamento, ed è possibile distinguerla funzionalmente in memoria di lavoro (working memory) e in memoria di lungo termine. La memoria di lavoro si occupa di codificare, recuperare e decodificare le informazioni; la memoria di lungo termine si occupa di memorizzare i dati attraverso sistemi e modelli categoriali. Tali processi di codifica, recupero e decodifica – nonché di ritenzione o immagazzinamento – vengono espletate per mezzo di strutture e processi sia di natura anatomo-fisiologica che di natura mentale e attraverso una modalità definita esplicita o implicita.

        Memoria esplicita e implicita

        La modalità esplicita è riconducibile a quel tipo di memoria chiamata appunto esplicita o dichiarativa, e caratterizzata da intenzionalità e consapevolezza dei processi mnesici, mentre la modalità implicita è riconducibile a quel tipo di memoria chiamata appunto implicita o non dichiarativa, e caratterizzata da automaticità e inconsapevolezza di tutto o parte del processo mnesico, oltre che afferente in genere a compiti o procedure di routine, come ad esempio guidare un veicolo dopo anni di esperienza.

        Memoria semantica, episodica e autobiografica

        La memoria esplicita – o dichiarativa – è ulteriormente categorizzabile in: semantica, episodica e autobiografica.
        Al primo tipo appartengono tutte le informazioni codificate in funzione del loro significato, come ad esempio ricordare che un determinato oggetto si chiama barometro e a che cosa serve.
        Al secondo tipo appartengono in genere le stesse informazioni, ma collocate in determinate coordinate spazio-temporali, come ad esempio il fatto di aver visto un oggetto chiamato barometro in un determinato luogo e in una determinata circostanza. Pertanto esperienze vissute in terza persona.
        Infine, al terzo tipo appartengono tutte quelle informazioni, anche di tipo semantico e episodico, ma che riguardano esperienze vissute in prima persona dall’individuo, come ad esempio il fatto di aver comprato e regalato il barometro alla propria fidanzata.

        Memoria procedurale, percettiva e priming

        La memoria implicita – o non dichiarativa – è ulteriormente categorizzabile in: procedurale, percettiva e priming.

        Procedurale

        Al primo tipo appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze precedenti e che consentono l’esecuzione di diversi compiti, sia cognitivi che comportamentali/motori ed anche emotivi, senza la consapevolezza cosciente dell’utilizzo di tali esperienze.

        Percettiva

        Al secondo tipo – detto anche sistema di rappresentazione percettiva – appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze precedenti e che consentono il riconoscimento veloce e l’identificazione di oggetti e parole di cui si fa esperienza successiva. Importante specificare che il sistema di rappresentazione percettiva non riconosce il significato degli stimoli, funzione questa che è demandata alla memoria semantica.

        Priming

        Al terzo tipo appartengono tutte le informazioni acquisite per il tramite di esperienze molto più recenti rispetto a quelle coinvolte nella memoria procedurale e nella memoria percettiva – se non addirittura immediatamente precedenti – e che determinano maggior facilità oppure rallentamento o inibizione della elaborazione successiva delle informazioni.
        Inoltre, nel priming della ripetizione, la presentazione di un particolare stimolo sensoriale aumenta la probabilità che il soggetto identifichi più agevolmente lo stesso oppure uno stimolo simile presentato in sequenza, mentre nel priming semantico, la presentazione di uno stimolo dotato di significato cognitivo e/o emotivo influenza il modo in cui i partecipanti interpretano uno stimolo successivo, non necessariamente simile al precedente.

        Smemoratezza e amnesia

        Difficoltà nell’uso di questa facoltà fondamentale sono definite come smemoratezza e nei casi più gravi amnesia. Forme di malfunzionamento della memoria sono tuttavia rilevabili a vario livello in tutti gli individui, come ad esempio nei casi in cui si rende necessario ricostruire il ricordo di un evento ai fini di rendere testimonianza ad un processo o di prendere una decisione, oppure nelle rievocazioni mnesiche affioranti nel corso di sedute psicanalitiche o di ipnositerapia, o ancora a seguito di traumi fisici o psicologici e in tutti quei casi in cui si è presenza di elevato arousal quale conseguenza di stati emotivi particolarmente intensi, sia positivi che negativi.

        Herman Ebbinghaus

        Il primo autore a studiare sperimentalmente la memoria e i suoi meccanismi fu Herman Ebbinghaus, che nella seconda metà del XX secolo condusse una serie di esperimenti impersonando il doppio ruolo di sperimentatore e di (unico) soggetto sperimentale, evidenziando l’esistenza di relazioni non casuali tra apprendimento e memoria.

        Il metodo implementato da Hebbinghaus – memorizzazione di materiale semplice, come appunto sillabe prive di significato, effettuata in ambiente rigorosamente controllato per evitare l’influenza di altre variabili – fu chiamato apprendimento verbale e ha caratterizzato la successiva ricerca, fino ai nostri giorni.

        In particolare postulò – tra le altre cose – la cosiddetta curva dell’oblio, denominazione di quel particolare fenomeno per cui a seguito dell’apprendimento di sillabe senza senso, si assiste ad un improvviso calo della ritenzione poco dopo l’apprendimento, seguito da un declino più graduale in seguito.
        Postulò inoltre l’effetto distanziamento (spacing effect), cioè quel fenomeno per cui l’apprendimento scaglionato in diverse e brevi sessioni di studio porta ad una migliore ritenzione del materiale appreso rispetto a poche e lunghe sessioni.

        Endel Tulving

        Un approccio alternativo all’apprendimento verbale fu quello introdotto a partire dagli anni ’30 del secolo scorso dalla psicologia della Gestalt.  I teorici di questo movimento provarono a utilizzare nello studio della memoria le evidenze che erano emerse nei loro studi sulla percezione. Diversamente da quanto teorizzato dai primi comportamentisti, la Gestalt enfatizzava l’importanza delle rappresentazioni interne che i singoli soggetti sperimentali modellavano degli stimoli, evidenziando il ruolo attivo – e non passivo, come invece ipotizzava il comportamentismo – del soggetto che apprende. La Gestalt influenzò il lavoro di un importante psicologo della memoria: Endel Tulving, il primo a teorizzare due tipologie distinte di memoria esplicita: la memoria semantica e la memoria episodica.

        Un altro contributo di Tulving è stato quello di distinguere tra memoria esplicita (consapevole) e memoria implicita (automatica), in particolare attraverso lo studio dei meccanismi di priming, come già evidenziato all’inizio di questo elaborato.

        Frederic Charles Bartlett

        Un ulteriore approccio che prendeva le mosse dal concetto di rappresentazioni interne proposto dalla Gestalt fu quello di Frederic Charles Bartlett, il quale piuttosto che studiare la capacità di ritenzione di dati privi di significato al termine di specifiche sessioni di apprendimento, era più interessato a studiare il modo con cui tali dati venivano codificati e immagazzinati per poi essere all’occorrenza recuperati e decodificati. Il suo metodo consisteva nel proporre ai soggetti sperimentali un racconto proveniente da una cultura diversa – nel suo caso era quella dei nativi americani. Successivamente veniva richiesto di ripetere la narrazione, evidenziandosi in tal modo la circostanza per cui i soggetti sperimentali ripetevano la storia accorciandola rispetto alla versione originale, e modificando sia la sintassi che il significato in funzione del proprio punto di vista culturale, che era quello occidentale.

        A differenza di Ebbinghaus, Bartlett esplorava quindi l’influenza della componente semantica del dato appreso sulla componente sintattica, la forma assunta dal contenitore in funzione del dato contenuto, forma che a sua volta modifica il contenuto in un processo di feedback circolare. Tale componente semantica era inoltre influenzata da quanto precedentemente appreso e conosciuto, sia in termini di memoria individuale che di memoria sociale, come già visto in apertura.

        Il concetto di schema

        Ecco introdotto il concetto di schema, una struttura mentale che rappresenta un dato oggetto del mondo, comprese le sue qualità e le relazioni tra queste. Gli schemi sono astrazioni che semplificano lo stare al mondo, secondo il noto assunto heideggeriano. Secondo Bartlett, anche le persone significative della nostra vita che abbiamo elevato – consapevolmente o inconsapevolmente – a modelli da imitare, emulare oppure semplicemente da tenere in considerazione sono immagazzinati nei nostri ricordi sotto forma di schemi.

        Alan Baddeley

        La definizione working memory è l’evoluzione della precedente definizione memoria a breve termine (originariamente postulata da Pribram e Galanter) ed è stata proposta da uno dei massimi studiosi contemporanei, Alan Baddeley.

        Si intende un sistema di ritenzione a breve termine dell’informazione in entrata che ne permetta la manipolazione e l’elaborazione ai fini dell’apprendimento, del ragionamento e infine dell’immagazzinamento nella cosiddetta memoria a lungo termine. È pertanto un sistema di memoria che sostiene la nostra capacità di “tenere a mente le cose” quando si eseguono compiti complessi. Il modello proposto da Baddeley prevede quattro componenti: il taccuino visuo-spaziale, che aiuta a mantenere le informazioni visive e la loro collocazione nello spazio, il loop fonologico, che aiuta a mantenere le informazioni sonore (in genere il linguaggio). Si tratta in entrambi i casi di sistemi di memoria, in quanto è possibile applicare su di essi le note mnemotecniche. La terza componente è l’esecutivo centrale, un meccanismo di controllo (e quindi non un sistema di memoria) che sovrintende l’intero processo e che è responsabile inoltre di assegnare le risorse attentive che ritiene più opportune ai vari stimoli (visivi e sonori in primis). Una quarta componente fu aggiunta da Baddeley nel 2000 e chiamata episodic buffer, un meccanismo in grado di trattenere un flusso di dati (streaming) per alcuni istanti e che mette in collegamento la working memory con la memoria a lungo termine, in particolare con la cosiddetta memoria episodica. Più specificatamente, opera una codifica dei dati in entrata tale da consentire il recupero dalla memoria episodica di altri dati codificati allo stesso modo e sovrintende anche l’immagazzinamento dei dati raccolti e codificati.

         

        [1] È discutibile l’appartenenza dei processi sensoriali alla categoria dei processi cognitivi. Infatti la sensazione, per mezzo dei suoi agenti – i sensi – è prevalentemente fisico-chimica e molto poco mentale, stante che i sensi catturano e trasmettono per via afferente al cervello informazioni circa l’esistenza e l’essenza dei molteplici fenomeni fisico-chimici che accadono attorno all’individuo. Tali fenomeni fisico-chimici sono ad esempio le onde elettromagnetiche che consentono sia la visione che l’ascolto, e i fenomeni prodotti dalla meccanica delle molecole (cinematica, dinamica e statica), che consentono il tatto, il gusto e l’olfatto.

        [2] La sensazione del corpo in movimento e delle singole posizioni assunte, quale risultante della stimolazione dei propriocettori dei muscoli. La propriocezione ha la finalità di determinare l’orientamento spaziale (senza l’ausilio della vista) e di mantenere una postura stabile

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        Psicologia sociale

        Il sostegno psicologico agli studenti per la prevenzione di atti di bullismo

        Prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo

        di Emanuele Fazio

        Il sostegno psicologico agli studenti per la prevenzione di atti di bullismo

        Il sostegno psicologico agli studenti per la prevenzione di atti di bullismo, è una misura prevista dal disegno di legge in giacenza presso il Senato della Repubblica e recante Disposizioni e delega al Governo in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo.

         

        Il dispositivo appena citato, prevede modifiche significative alla legge 29 maggio 2017, n. 71, e nella fattispecie in argomento, dopo l’articolo 4 è proposto l’inserimento dell’articolo 4-bis, recante Servizio di sostegno psicologico agli studenti e servizio di coordinamento pedagogico. 

         

        Più specificatamente, le regioni potranno adottare iniziative affinché sia fornito alle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, che lo richiedano, anche tramite convenzione con gli uffici scolastici regionali, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica:

         

        • un servizio di sostegno psicologico agli studenti per la prevenzione del bullismo, al fine di favorire lo sviluppo e la formazione della personalità degli studenti medesimi nonché di prevenire fattori di rischio o situazioni di disagio, anche attraverso il coinvolgimento delle famiglie;
        • un servizio di coordinamento pedagogico, nei limiti delle previsioni di legge, al fine di promuovere e contribuire al pieno sviluppo delle potenzialità di crescita personale, di inserimento e partecipazione sociale, agendo in particolare sulle relazioni interpersonali e sulle dinamiche di gruppo.
        Emanuele Fazio
        Psicologo a Roma Nord


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        Il bullismo

        Ricordiamo che con il termine bullismo si vuole intendere l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, in danno di un minore o di un gruppo di minori, idonee a provocare sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni o violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni.

         

        Più estesamente, il bullismo è un comportamento prevaricatore di natura fisica e/o verbale, caratterizzato da molestia e aggressività anche di tipo minaccioso, sempre di natura intenzionale o intenzionalmente non inibita.

         

        È diretto verso una o più persone da parte di una o più persone, in particolare tra coetanei adolescenti o giovanissimi adulti, e dove la parte soccombente è generalmente più debole e/o incapace di difendersi adeguatamente dal comportamento appena descritto.

         

        Sebbene tra gli studiosi che, in ambito accademico, si sono occupati del fenomeno, le definizioni di bullismo non siano sempre le stesse, gli stessi studiosi concordano sul fatto che il bullismo sia una particolare forma di comportamento aggressivo, in quanto a differenza delle altre forme di aggressività, è caratterizzato da tre variabili fondamentali, vale a dire:

         

        • intenzionalità;
        • ripetizione;
        • squilibrio di potere.

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        Con il termine sentimento (feeling) si intende una esperienza vissuta da un singolo individuo e determinata sia da cause esterne che da cause interne.
        Il sentimento è un fenomeno soggettivo, a cui è possibile attribuire un valore quantitativo e qualitativo e un nome per definirlo.
        Esso è indipendente per quanto associato alla sensazione, al pensiero o a quant’altro abbia concorso a determinarlo.

        Da notare che il sentimento è molto vicino alla sensazione, sia da un punto di vista linguistico – la sensazione in inglese è anche detta physical feeling – che da un punto di vista della architettura mente/cervello.

        I valori qualitativi più adoperati nel linguaggio comune e nel linguaggio scientifico sono: positivo/negativo, piacevole/spiacevole.
        Ciò che differenzia il sentimento da altre esperienze fenomeniche come il pensiero, la sensazione, la percezione è per l’appunto il fatto che si possa dare ad esso una valutazione.
        Ciò che noi diciamo pensiero negativo o sensazione spiacevole oppure percezione positiva non è altro che il valore attribuito al sentimento ad essi associato e da loro determinato. Sentimento ed emozioni sono due cose diverse. L’ emozione è un fenomeno che implica, il coinvolgimento di strutture e funzioni neurofisiologiche (in primis i due assi SMA e HPA) di strutture e funzioni mentali per l’attribuzione di una causa e quindi di un nome, mentre il sentimento è un fenomeno esclusivamente mentale – mental feeling, per l’appunto.
        Si tratta in entrambi i casi di strumenti di comunicazione: l’espressione delle emozioni ci permette di comunicare con il mondo esterno mentre il sentimento ci permette di comunicare con il mondo interno, per quando esistano nella fattispecie molte sovrapposizioni, stante che spesso sentimento ed emozione sono usati in modo intercambiabile.

        Emanuele Fazio
        Psicologo a Roma Nord


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        emanuele fazio psicologo a roma nord

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